Curcio Medie

Regista cinematografico (Rimini 1920 - Roma 1993). Iniziata la carriera come disegnatore umoristico, si trasferì a Roma negli anni Quaranta inseguendo il sogno di diventare giornalista. Qui inizia a collaborare per il «Marc’Aurelio», la principale rivista umoristica italiana, prestando il suo contributo come disegnatore di vignette.
La sua attività nel cinema ha inizio con la collaborazione alle sceneggiature di Roberto Rosselini. Frutto di questa collaborazione sono Roma città aperta (1945) e Europa ‘51 (1952). Il suo lavoro di sceneggiatore prosegue collaborando con Pietro Germi e Alberto Lattuada, prima di esordire nella regia con il film Luci del varietà (1951), diretto insieme a Lattuada: un film sul mondo dell’avanspettacolo cui lui rivolge uno sguardo ironico e compassionevole allo stesso tempo.

Nel 1952 dirige da solo Lo sceicco bianco, una caricatura del mondo dei fumetti, che vede come protagonista un Alberto Sordi alle prime armi. I Vitelloni (1953), Leone d’argento al festival di Venezia, continua il suo filone umorista. Si tratta del racconto di un disagio generazionale raccontato attraverso le vicende di un gruppo di giovani scansafatiche che non riescono a diventare adulti e a trovare il giusto posto in società.

Già in questi primi film emerge la personalità originale di un regista che non segue alcuna scuola di pensiero, ma che crea uno stile personale che lo imporrà come un maestro del cinemacontemporaneo.

La Strada (1954), premio Oscar per il migliore film straniero, è una favola moderna che racconta le vicende di Gelsomina, un personaggio emblematico dai connotati quasi surreali, che si trova a dividere la vita con Zampanò, un uomo rozzo e senza nessuna sensibilità, che troverà la redenzione solo quando Gelsomina muore. Gelsomina diventerà il personaggio, simbolo di tutti gli umili. Il bidone (1955) e Le notti di Cabiria (1957) segnano la fine dell’epoca neorealista di Fellini che, abbandonata ogni illusione, si ripropone con La dolce vita in una veste più cinica. La dolce vita (1960) rappresenta un affresco della decadenza morale di una società che è uscita ormai del tutto fuori dalle problematiche del dopoguerra e si appresta a conquistare sempre di più il benessere economico. Attraverso una nuova forma di espressione che esce fuori da ogni canone cinematografico, il personaggio di Mastroianni, giornalista di cronaca rosa, non è altro che una soggettiva dello stesso Fellini che racconta se stesso. Il film suscita una serie di critiche e polemiche soprattutto per la scena finale con lo spogliarello accennato dell’attrice Anita Ekberg.

Dopo Le tentazioni del dottor Antonio (1962) episodio del film Boccaccio ‘70, Fellini realizza, nel 1963, Otto e mezzo, film dai contenuti psicoanalitici che risente della corrente junghiana con cui Fellini era venuto a contatto dopo l’incontro con E. Bernhard, il suo psicoanalista. Sospeso tra la realtà e il sogno Otto e mezzo racconta la crisi dell’uomo contemporaneo, che ha bisogno di fare ordine dentro di sé, di assegnare un posto a tutte le cose che la realtà gli offre, per ottenere quella sorta di rinascita spirituale che gli dà la possibilità di andare avanti. Otto e mezzo è subito un grande successo e raccoglie premi dappertutto, ma segna l’inizio di un periodo di crisi nella vita dell’autore, che deve affrontare, tra le altre cose, anche alcuni problemi di salute.

Il risultato di questa crisi sarà il visionario Toby Dammit, un episodio del film Tre passi nel delirio, del 1968. Seguono Fellini Satyricon, che raccoglierà grande successo negli Stati Uniti e che in Giappone sarà addirittura presente in sala per quattro anni.

Nel 1972 è la volta di Roma. In questo film, dietro l’immagine del tutto finta del film documento, si nascondono le soggettive dell’autore, che inserisce al suo interno i ricordi del suo passato. Eccezionale il finale con la grottesca sfilata di moda ecclesiastica, che fa emergere la satira pungente e visionaria che è caratteristica dei film di Fellini.

Del 1970 I clowns, film documento che trae spunto dalla sua passione per il circo e per la vita che gli artisti circensi conducono. Ancora una volta giocato sul filo del ricordo è Amarcord, che traccia il ritratto di personaggi che rimangono nella memoria di tutti, come la tabaccaia dai seni prorompenti e la Gradisca, donne che appartengono all’immaginario dell’autore.
Il film segna un ulteriore passo avanti nella consacrazione di Fellini a maestro del cinema contemporaneo, che a fronte di tutto questo può permettersi film come Casanova (1976), che traccia un ritratto livido di un personaggio che, lungi dall’essere l’allegro dongiovanni descritto dalle numerose leggende che raccontano di lui, diventa personaggio freddo, senza volto e senza colore, ossessionato da se stesso e dalla sua vita, legata a una teatralità decadente che gli toglie ogni tipo di afflato vitale, facendolo apparire più che altro come un morto vivente.

Del 1978 Prova d’orchestra, film per la televisione, metafora politica della civiltà del suo tempo, in cui un gruppo di orchestrali, anarchici e in rivolta, vengono richiamati all’ordine da un tirannico direttore d’orchestra.

Nel 1979 realizza il controverso La città delle donne. Il film raccoglie le perplessità di molti e soprattutto, scatena le ire delle femministe che non condividono il suo modo di considerare le donne, tuttavia rivela il coraggio di una confessione importante: l’inadeguatezza della figura maschile nei confronti della donna.

Seguono ancora E la nave va, del 1983, e Ginger e Fred, del 1986, in cui protagonista è la nostalgia verso certe forme di spettacolo, in esso emerge il rifiuto dell’autore verso una televisione troppo ancorata a una pubblicità avvilente e verso certe forme di spettacolo spazzatura.

Del 1987 è Intervista, film autobiografico in cui Fellini racconta, ancora una volta in maniera esplicita, se stesso e la sua esperienza con il cinema.

Nel 1990 esce La voce della luna, ultimo film di Fellini. Intriso di poesia, racconta, attraverso l’interpretazione magistrale di due comici come Paolo Villaggio e Roberto Benigni, il disincanto e il pessimismo di un autore che, pur continuando ad amare la vita, non riesce più a farsi illusioni e si vede proiettato verso la ricerca del silenzio. Lontano dai clamori, il Fellini uomo aspira ad approdare verso gli spazi indefiniti dell’universo interiore e si proietta verso i confini indefiniti della morte, cui il cammino della vita umana conduce inesorabilmente.

Nel 1993 Fellini vince il suo quinto Oscar alla carriera e nello stesso anno, a ottobre, muore colpito da un ictus. La camera ardente viene allestita dentro lo studio 5 di Cinecittà, quello studio in cui Fellini era riuscito a ricreare tutti gli ambienti dei suoi film e che ormai rappresentavano la sua seconda casa.