Curcio Medie

Movimento politico italiano fondato nel 1919 a Milano da Benito Mussolini e costituitosi in partito nel 1921; trasformatosi in regime, governò l’Italia dall’ottobre 1922 al 25 luglio 1943.

Le origini e la lotta per il potere. La personalita di Benito Mussolini e la sua azione politica dopo l’uscita dal Partito socialista (1914) sono al centro delle origini del fascismo. Egli infatti, nel clima di tensione ideale della campagna interventistica e dello sforzo bellico, raccolse intorno ai Fasci di azione rivoluzionaria e al giornale «Il Popolo d’Italia», da lui fondato, certi inquieti fermenti del rivoluzionarismo di sinistra, sfuggenti alla disciplina teorica e pratica del socialismo, alimentando con essi la nuova tendenza attivistica, detta appunto «fascista».

Lo sfondo culturale di tale svolta in senso interventistico‑nazionalistico del socialista Mussolini e dei suoi seguaci fu offerto dalle filosofie idealistico‑irrazionalistiche diffuse dall’inizio del XX secolo, con particolare influenza di Sorel (attraverso il sindacalismo rivoluzionario) e di Nietzsche (tramite il dannunzianesimo); fenomeni paralleli furono, inoltre, il combattentismo, l’arditismo e il futurismo, rispetto ai quali il movimento mussoliniano presentò fin dal principio una spiccata fisionomia politica. Terminato il conflitto, Mussolini fondò a Milano (23 marzo 1919), con il consenso di circa 500 aderenti in tutta Italia, i Fasci di combattimento, che nel nome stesso affermarono un permanente spirito di mobilitazione, in continuità con l’interventismo, per valorizzare la vittoria e come rivendicazione di maggiori vantaggi nazionali al tavolo della pace.
Abbandonate le posizioni socialiste e i residui classisti, che aveva mantenuto, con attitudine di dissidente, Mussolini mise in rilievo soprattutto il ruolo antibolscevico e in genere antisocialista del movimento, che cominciò a svolgere sfidando con azioni violente le masse lavoratrici in crescente agitazione (la prima notevole di tali azioni fu la distruzione della sede dell’«Avanti!» a Milano, alla metà di aprile del 1919). Sul modello del fascio milanese se ne costituirono nei mesi successivi parecchi altri, specialmente nelle città del nord, ma le elezioni politiche del novembre 1919, favorevoli a socialisti e popolari, dimostrarono l’inconsistenza del nucleo mussoliniano, la cui unica lista, presentata a Milano, riportò meno di 5000 voti.
La mancata presa sulle masse fece riaffiorare nell’animo del capo fascista la sua componente anarchica messa però al servizio, adesso, delle forze della conservazione e della reazione, già in lenta fase di ripresa; ma le vie per uscire dal disorientamento di quei giorni furono segnate dall’impresa dannunziana di Fiume (1919‑1920) e dalla fallita prova di forza della classe operaia con l’occupazione delle fabbriche (1920). La prima, appoggiata e al tempo stesso contenuta da Mussolini (preoccupato di non esser preceduto dal poeta nel compimento della sua rivoluzione), offrì al fascismo il modello tecnico‑militare e cerimoniale-coreografico per le sue milizie.
L’occupazione delle fabbriche scavò il solco definitivo nel contrasto tra le classi, suscitando un timore e profondo rancore nella borghesia industriale o arrestando la classe operaia sulla via della rivoluzione, cui non era stata adeguata la strategia politico‑sindacale del socialismo italiano. Giolitti, subentrato a Nitti nel giugno 1920 come presidente del Consiglio, sentendosi, nonostante i gravi disordini, padrone delle leve dello stato, attese fiducioso che la parabola prerivoluzionaria del proletariato settentrionale raggiungesse il punto più alto, dopo il quale comprese che, al posto della rivoluzione, sarebbe iniziata la curva discendente, ma le classi possidenti e i vasti strati dell’opinione pubblica amanti dell’ordine non poterono seguire il vecchio statista nella paziente e abile previsione e nel metodo di esaurire il massimalismo socialista attraverso le sue stesse insufficienze.
Il governo Giolitti parve perciò riflettere, con la sua debolezza e al pari di quello Nitti, la crisi decisiva dello stato liberale, a difesa del quale peraltro non seppe o non poté schierarsi a tempo il Partito socialista, condizionato all’opposizione dal peso degli strati più sacrificati del popolo; la crisi economica, infatti, impediva di ripetere a favore di tali strati i compromessi in chiave sindacale‑retributiva, raggiunti prima della guerra, nel periodo del governo giolittiano. Simili condizionamenti o preclusioni non aveva il fascismo, sorto, come si è visto, senza una precisa ideologia e privo di una consistente base sociale cui render conto della propria evoluzione politica.

L’essenziale per una buona parte dei fascisti era l’azione, specie in funzione antisocialista, e questa, negli ultimi mesi del 1920, cominciò a esser presa in considerazione, per un impiego che supplisse al difetto dell’energia poliziesca e governativa, dalle classi possidenti agrarie e industriali, recentemente organizzatesi nelle rispettive confederazioni generali. L’intesa con le prime aprì al fascismo il vasto campo di azione dell’ambiente rurale emiliano, dove la violenza squadristica si abbatté sulla pur potente rete delle organizzazioni socialiste, con l’appoggio dei possidenti agricoli.
Mentre l’attacco fascista produceva lo scompiglio nel socialismo emiliano (particolarmente gravi gli avvenimenti bolognesi del 21 novembre 1920), anche Giolitti intendeva avvalersi del nuovo movimento, sia come antidoto al rivoluzionarismo di sinistra sia per dividere lo schieramento nazionalistico, mettendo Mussolini contro D’Annunzio per liquidare l’impresa di Fiume. Si ebbe così la partecipazione fascista alle elezioni amministrative (autunno 1920) nei Blocchi nazionali e un più moderato atteggiamento mussoliniano in politica estera, con l’accettazione del trattato di Rapallo e il sostanziale abbandono di D’Annunzio.
Stretti tali rapporti con influenti forze politiche ed economiche, il fascismo compì, a partire dalla fine del 1920, una rapida crescita, che come primo risultato lo portò all’ingresso in parlamento, con 35 deputati eletti nelle liste dei Blocchi nazionali (maggio 1921). Il successo recò con sé un interno travaglio, mai pienamente cessato e spesso acuitosi nella successiva storia fascista, per la riluttanza della componente rivoluzionaria a integrarsi, sul terreno della conservazione, con gli interessi, i costumi e la radicata psicologia del mondo borghese, di cui il fascismo divenne sì l’elemento di punta, ma anche il continuo pungolo.
Questo travaglio, sinceramente vissuto da molti seguaci e fonte di contrapposizioni all’interno del movimento, si compose attraverso la mente politica di Mussolini in una linea oscillante, ma non incerta che, con maestria opportunistica, condusse il fascismo al potere, giocando il pur astuto Giolitti. Del 1921 sono l’intesa con il capitalismo industriale (con il corrispettivo passaggio al liberoscambismo), i primi contatti con la monarchia e con il papato, la formazione del sindacalismo fascista e la trasformazione dei Fasci di combattimento, sorti come movimento e addirittura definiti «antipartito», nel Partito nazionale fascista, che venne costituito a Roma nel novembre e fu concepito e strutturato come organizzazione militare, composta di legioni, coorti, centurie e squadre: esso ebbe un comitato centrale e un consiglio nazionale.
I rapporti con i socialisti erano migliorati per poco con il «patto di pacificazione», stretto in agosto nel quadro della normalizzazione voluta da Mussolini, il quale vedeva negli eccessi squadristici l’affermazione dei capi locali, o ras, e la diminuzione delle sue possibilità di controllo sul fascismo in sviluppo; tornarono però presto a peggiorare per l’opposizione al patto dei più combattivi esponenti, quali il giovane avvocato bolognese Dino Grandi, che propugnava altresì una «democrazia nazionale» contro ogni assimilazione del fascismo con la destra liberale.
Questa, dal canto suo, sentendosi mancare sempre più il consenso popolare, offriva la sua eredità, soprattutto per mezzo di Salandra, alla «giovanile baldanza» del fascismo, mentre il frequente favore della forca pubblica la assecondava nei continui scontri con gli avversari, che non erano più soltanto i socialisti, ma anche i comunisti, sorti alla loro sinistra e combattenti con particolare decisione (organizzarono gli Arditi del Popolo), gli anarchici, parte dei popolari, i liberaldemocratici di varie gradazioni e scuole e i repubblicani scesi in campo dopo un’iniziale neutralità.
L’estensione dell’area antifascista non avveniva solo in ragione dell’aumentata importanza del fascismo, ma per l’evoluzione della lotta in corso, che si era ormai atteggiata in contrasto di classe tra socialismo proletario e fascismo alleato della borghesia, e veniva ora allargandosi a duello tra la democrazia nel suo insieme e la concezione nazionalistica e autoritaria dello stato. Il 1922 segnò una certa penetrazione fascista tra i contadini e gli operai, la sua espansione nel sud e vide, infine, la marcia su Roma (27‑28 ottobre), che travolse il governo Facta e portò il fascismo al potere, in accordo con la monarchia. Il nuovo governo, composto da personalità di varia provenienza politica, ma con l’organica dipendenza dal solo Partito fascista, attuò una politica economica favorevole soprattutto alle classi agiate (abolizione della nominatività dei titoli, liquidazione del disegno di legge sulla riforma agraria, revoca delle sovvenzioni statali alle cooperative, esercizio privato della rete telefonica, abolizione del monopolio statale delle assicurazioni sulla vita), pur stabilendo il limite delle 8 ore di lavoro.
In politica estera, a una prima fase filofrancese, antitedesca e antinglese, subentrò l’avvicinamento all’Inghilterra. All’interno, le varie opposizioni videro stringersi intorno una morsa, che nel giro di qualche anno le privò di ogni possibilità di espressione. Violenza squadristica e provvedimenti governativi eliminarono, infatti, a gara, le libertà politiche degli italiani, con continue aggressioni fisiche e restrizioni.
Tra le tante vittime, ricordiamo il sacerdote Giovanni Minzoni, assassinato nell’agosto 1923, il deputato socialista Giacomo Matteotti, rapito e trucidato nel giugno 1924, Piero Gobetti e Giovanni Amendola, entrambi minati nel fisico dalle aggressioni subite e spentisi esuli in Francia (1926), il segretario del Partito comunista Antonio Gramsci, condannato nel 1927 a 20 anni di reclusione e morto nel 1937. Anche la causa fascista ebbe i suoi caduti, specialmente quando le manifestazioni e spedizioni squadristiche, prima dell’avvento di Mussolini al potere, incontravano il raro rigore della forza pubblica (come accadde a Sarzana il 21 luglio e a Modena il 26 settembre 1921) o suscitavano particolari reazioni della collera popolare.

Il regime. Assicuratasi una forte maggioranza parlamentare nelle elezioni dell’aprile 1924, svoltesi con il sistema maggioritario (per cui bastava assicurarsi la maggioranza relativa sulle altre liste per disporre a piacere della camera), precedute e accompagnate da ogni sorta di violenze, superata la fase di riflusso seguita all’assassinio di Matteotti, che indusse altresì gli avversari alla secessione dell’Aventino, ed eliminata preliminarmente in seno al fascismo l’ala revisionistica, non priva di scrupoli costituzionali, Mussolini, con il discorso del 3 gennaio 1925, annunciò l’instaurazione della dittatura, attuata poi da una fitta legislazione speciale.
Con energia e precisa coscienza della responsabilità che si assumeva, favorito dagli errori degli avversari, egli chiuse un’intera epoca dell’Italia unitaria, caratterizzata da progressi, ma anche da profonde insufficienze, che avevano alimentato radicali avversioni ideologiche e politiche allo stato liberale. Tra queste si era affermata, dal principio del XX secolo, l’ideologia nazionalistica, matrice di un movimento politico che, fondendosi nel 1923 col fascismo, vi portò i suoi concetti antidemocratici e imperialistici.
In quegli anni si aprì una nuova epoca, in cui si può dire che la storia del fascismo coincise con la storia d’Italia. Consolidata la dittatura, i dirigenti del partito si preoccuparono di far coincidere la normalizzazione del fascismo con l’elaborazione dei suoi aspetti positivi, al di là dell’elemento negativo, emerso in forma di violenza durante la lotta per il potere; in primo luogo, si configurò idealmente tale violenza come l’espressione di una volontà collettiva, consapevole nelle élites, tesa all’affermazione dello stato come valore assoluto.
Di qui il rifiuto, nei rapporti internazionali, di una sistematica ricerca della pace come bene dell’uomo e la sua utilizzazione come tregua, più o meno lunga, nell’incessante vicenda di competizione e di lotta tra gli stati. All’interno dello stato fascista la carica di violenza si tradusse in un apparato autoritario, inteso a creare un sistema gerarchico, volto a comporre i contrasti tra le classi: questo sistema fu il corporativismo, uscito con lineamenti ancora incerti dalla disciplina giuridica dei rapporti di lavoro, elaborata negli anni 1926‑1927. All’alleanza con le classi possidenti, stretta durante la fase della lotta per il potere, fece seguito, mediante l’ordinamento corporativo dello stato, l’incontro del fascismo con le classi lavoratrici, costrette entro i sindacati del regime con il boicottaggio e il progressivo scioglimento di quelli di sinistra, ai quali erano rimaste tenacemente fedeli. Il fascismo fece dei passi (come l’appoggio ad alcuni scioperi e il successivo sviluppo dell’organizzazione assistenziale) per conciliarsi le classi contro cui era sceso in lotta e per dissociare la sua proclamata natura politica e superclassista dagli interessi capitalistici e agrari, che ne avevano sostenuta e accompagnata l’ascesa; i piu cospicui tra questi interessi si avvantaggiarono peraltro del passaggio dalla fase liberoscambista (seguita sotto il ministro delle finanze De Stefani, 1922‑1925) a quella monopolistica, con la conseguente concentrazione del potere economico (per esempio, il decreto per il consorzio dell’industria siderurgica, 1931), combinata con il sistematico intervento, specialmente creditizio, dello stato (costituzione dell’Istituto mobiliare italiano, 1931 e dell’Istituto di ricostruzione industriale, 1933).
L’uscita dell’economia italiana dalla crisi del dopoguerra, compiuta dal regime all’insegna della rivalutazione della lira, pesò soprattutto sulle categorie a reddito fisso, che si videro decurtati i salari senza una diminuzione adeguata del costo della vita; la rivalutazione monetaria danneggiò in parte anche gli esportatori, per il cambio meno favorevole agli stranieri acquirenti sul mercato italiano. Si fecero poi sentire le ripercussioni della crisi economica mondiale (nel 1930‑1931 si riaprì il disavanzo) e della guerra etiopica (aumento dei prezzi e dei salari).
Nel campo del costume e delle idee, si avvertì un maggior distacco del fascismo dalle posizioni borghesi: all’onorabilità e moderazione del borghese italiano si oppose un atteggiamento spavaldo e spesso volgare, alla sua aspirazione alla vita comoda, l’ostentata ricerca del rischio, agli aspetti più riservati e più originali della mentalità borghese si contrappose la dimensione di massa degli entusiasmi suscitati dal fascismo, alla naturale antitesi economica delle classi la costrizione dall’alto alla loro collaborazione, e infine la lotta contro le imitazioni di oggetti e nomi stranieri. Tra le realizzazioni del regime si possono ricordare, oltre alla difesa della lira, la battaglia del grano che, iniziata nel 1925, portò nel 1933 la produzione cerealicola italiana a coprire quasi interamente il fabbisogno nazionale, la bonifica delle paludi pontine (iniziata nel 1931), che dette poi origine al sorgere di una zona agricola e di moderne cittadine in quei luoghi del Lazio, i lavori pubblici, specialmente stradali, e l’educazione fisica della gioventù.
Con queste e altre iniziative, accompagnate dalla esaltazione propagandistica, il fascismo in alcuni campi e momenti riuscì a galvanizzare le energie di molti italiani, ma si trattò piuttosto di eccitazione temporanea, soggetta a frequenti oscillazioni, che di un effettivo e convinto consenso. Nel 1931 i dirigenti fascisti, preoccupandosi di tale fenomeno, sospesero le iscrizioni, ma la restrizione del proselitismo era in contrasto con le difficili condizioni di vita riservate ai cittadini non fascisti, conforme alla negazione della libertà dell’individuo, sostituita da quella dello stato (libertà solo dello stato in quanto assoluto), e alla compenetrazione istituzionale di questo con il regime.
La fascistizzazione procedette in ogni ramo dell’attività statale, investendo la giustizia (a parte l’istituzione, nel 1926, del Tribunale speciale per la difesa dello stato, anche la giustizia ordinaria si piegò, in varie occasioni, alle direttive del regime), l’istruzione in ogni grado (una certa resistenza si manifestò nella scuola secondaria; ai professori universitari si impose, dal 1932, il giuramento di fedeltà al partito), la burocrazia, la diplomazia, l’esercito e la polizia, cui tuttavia si elevarono, rispettivamente nel 1923 e nel 1926, due tipi di contraltare, con quella specie di esercito fascista che fu la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn) e quella polizia politica che prese il nome di Opera vigilanza repressione antifascista (Ovra).
Impadronitosi, dunque, dello stato italiano, il fascismo procedette, attraverso i Patti lateranensi (1929), al superamento del contrasto tra questo e la Chiesa cattolica, che si prolungava dalle sue origini risorgimentali cancellando così, di fronte alla coscienza cattolica, il peccato d’origine della unità nazionale. All’intesa con il fascismo, delineatasi già prima del suo trionfo, la Chiesa aveva sacrificato l’esistenza di un autonomo partito di cattolici, mentre il fascismo, dal canto suo, aveva desistito da certe tendenze e velleità anticlericali, prima emerse nella sua confusa temperie ideologica; ma lo storico accordo non impedì il sorgere di divergenze, soprattutto per gli ostacoli frapposti all’azione sociale e educativa delle organizzazioni giovanili cattoliche (rivalità tra Opera nazionale Balilla, istituita nel 1926, ed Esploratori cattolici, campagna lanciata nel 1931 contro l’Azione cattolica).
A parte gli scopi d’influenza sulla società e di divisione del potere che determinarono tali incontri e scontri tra il regime e la Chiesa, il fascismo valorizzò il cattolicesimo come cospicua componente del patrimonio storico‑spirituale della nazione, nella ricerca della continuità tra la sua era, aperta con la marcia su Roma (dalla quale si computarono gli anni), e la precedente storia italiana. Questo problema della continuità, riferito in particolare all’epoca 1861‑1922, suscitò, sia in campo fascista sia in quello antifascista, una discussione storiografica, tendendo taluni ad accentuarla. Mentre si veniva così consolidando e definendo, il fascismo esercitò frattanto, al di là delle sue intenzioni, un’attrazione sull’Europa dove sorsero, qua e là, movimenti modellati sul suo esempio: British Union of Fascists in Inghilterra, Croix de feu in Francia, Partito nazionalsocialista in Germania, Guardia di ferro in Romania, Falange spagnola ecc.
Anche a prescindere da questi specifici orientamenti fascisti, vennero da ambienti conservatori stranieri (per esempio, per voce di Winston Churchill) attestazioni di simpatia o stima per l’Italia mussoliniana, che ne trasse l’incentivo per sentirsi al centro di una nuova Europa, in base al presunto dilemma «Roma o Mosca». Dapprima l’atteggiamento di Mussolini e dei più responsabili esponenti del regime verso il proselitismo europeo non fu scevro di preoccupazioni per certi aspetti dei movimenti stranieri che, in alcuni casi, difettavano di pathos rivoluzionario, dimostrandosi mere forme di reazione sociale e, in altri casi invece, ne abbondavano distaccandosi comunque dal modello della dittatura fascista italiana.
Queste differenze emersero soprattutto nei confronti della dittatura nazista instaurata in Germania nel 1933, che al concetto fascista di stato antepose quello biologico‑materialistico di razza. Tuttavia, queste diversità si rivelarono transitorie e superficiali, dimostrando la mancanza di serie fondamenta ideologiche nel fascismo; esse, infatti, cominciarono a svanire non appena fu superato l’attrito politico con la Germania, rotto il fronte di Stresa (con Francia e Inghilterra, 1935), in seguito alla conquista dell’Etiopia. Maturati, poi, sui campi di battaglia spagnoli, l’Asse Roma‑Berlino (1936) e l’adesione al Patto Anticomintern (1937 ), il fascismo imitò la Germania hitleriana sul terreno razzista, elaborando una legislazione antiebraica (1938). La campagna della razza dimostrò la servile duttilità della cultura fascista che, in modo acritico e precipitoso, si adeguò alle nuove direttive (Manifesto della razza, 1938).
La politica culturale del regime aveva tuttavia raccolto, insieme con molti detriti dell’opportunismo, anche le adesioni di intellettuali spontaneamente orientati verso il fascismo, tra cui il filosofo Giovanni Gentile (con il cui idealismo attuale giunse nell’ideologia fascista un rivolo dell’hegelismo). Tra le iniziative culturali, ricordiamo l’Istituto fascista di cultura, sorto nel 1925, l’Accademia d’Italia, istituita nel 1926 e inaugurata nel 1929, e i Littoriali della cultura e dell’arte, gare tra i giovani universitari, paralleli a quelli dello sport e del lavoro.
Preoccupazione costante del regime fu l’aumento demografico, promosso, oltre che con la continua propaganda, con agevolazioni tributarie e doni alle famiglie numerose. Connessa alla spinta demografica fu l’espansione coloniale in Africa per assicurare lo sbocco migratorio in un ambito territoriale soggetto alla sovranità italiana. Fu questa una delle ragioni dell’impresa etiopica, coronata dalla proclamazione dell’impero (1936), obiettivo essenziale della politica di potenza fascista, esaltata dalle memorie dell’antica Roma e dall’emulazione dei grandi imperi coloniali moderni. Ottenuto, dopo una fase critica nei rapporti con l’Inghilterra e la Francia, il loro riconoscimento dell’impero (1938), Mussolini invece di riequilibrare la sua politica estera perseverò, fino alle ultime conseguenze, nell’alleanza con la Germania, rischiando le sorti dell’Italia con l’intervento nella seconda guerra mondiale (1940). Frattanto, sotto il segretario Achille Starace (1931‑1939), il Pnf raggiunse un grande sviluppo quantitativo, mentre il richiamo all’osservanza dello stile fascista con la minuta regolamentazione della vita delle masse raggiunse toni tra farseschi e vessatori con la instaurazione del «sabato fascista», le prove sportive dei gerarchi, la sorveglianza negli aspetti anche familiari della convivenza.

Il crollo e i tentativi di rinascita. In effetti, nell’atmosfera caporalesca creata da Starace l’obbedienza passiva della maggior parte degli italiani divenne vero conformismo, finché gli sfortunati eventi del conflitto, scuotendo dal torpore l’animo popolare, suscitarono la ripresa, in  grandi proporzioni, dell’antifascismo. D’altra parte, delineandosi la sconfitta delle forze dell’Asse, sia negli ambienti di corte sia nell’ala moderata e revisionista dei ranghi fascisti maturò il colpo di stato per rovesciare il governo di Mussolini, che fu effettuato all’indomani della riunione del Gran Consiglio del 24‑25 luglio 1943, conclusasi con l’approvazione dell’ordine del giorno Grandi, vero atto d’accusa contro il duce.
Si ebbe dunque il crollo del fascismo, che fu restaurato in forma repubblicana, dopo l’armistizio dell’8 settembre nella parte d’Italia occupata dai tedeschi (Repubblica sociale italiana, proclamata a Salò il 23 settembre 1943). In quest’ultima fase Mussolini, liberato dai tedeschi dalla prigionia a cui lo aveva costretto il nuovo governo, tradito dalla monarchia e deluso dai ventennali compromessi con i ceti possidenti, propugnò il ritorno al tendenziale socialismo delle origini fasciste, «per fare del lavoro – come egli disse – il soggetto dell’economia e la base infrangibile dello stato» (confessando così implicitamente il fallimento del corporativismo).
La socializzazione delle imprese e la partecipazione di operai e tecnici al controllo e agli utili delle aziende figurarono tra i temi prevalenti della propaganda e dei progetti del fascismo repubblicano, che tenne un confuso congresso a Verona (novembre 1943); ma i decreti legge, preparati in tal senso dal governo, furono rimandati fino al febbraio 1945, cioè fin quasi al crollo dei regime di Salò, per l’opposizione dei tedeschi, connessa a quella degli industriali, e per il risoluto antifascismo degli operai del nord, che comprendevano come ormai la socializzazione fosse la carta estrema giocata dal regime e attendevano una nuova condizione sociale e umana dalla liberazione del paese.
Nell’aprile 1945 la Repubblica sociale, già investita dai colpi della Resistenza, che aprì la strada agli Alleati, cadde dopo un anno e mezzo di terrore nazifascista, esercitato, tra l’altro, nel processo di Verona (gennaio 1944) contro i membri del Gran Consiglio schieratisi il 24‑25 luglio 1943 contro Mussolini. Questi, di fronte alla rovina della sua ultima costruzione politica, fuggì da Milano il 25 aprile, ma fu catturato dai partigiani presso Dongo e fucilato il giorno dopo. Il movimento fascista si dissolse e la Costituzione della nuova Repubblica democratica italiana ne vietò la riorganizzazione sotto qualsiasi forma (disposizioni transitorie e finali, XII).