Curcio Medie

La cosiddetta «Europa dell’Est» è un falso storico e geografico, di cui solo da pochi anni abbiamo cominciato a renderci conto e a misurare le drammatiche proporzioni. 

In realtà, questa divisione dell’Europa tra Est e Ovest è stata un triste, arbitrario prodotto della Seconda Guerra Mondiale. Quando le potenze vincitrici si misero al tavolo della pace, sancirono quello che avevano deciso a Yalta nel febbraio 1945: volendo dare un castigo esemplare alla Germania, divisero inizialmente il paese in quattro zone e le occuparono militarmente: poi, nel 1949, la Germania fu divisa in due stati (Repubblica dell’Est e Repubblica dell’Ovest), affinché non potesse mai minacciosamente risorgere.
La Germania dell’Est e tutti i paesi che si trovavano ad oriente del fiume Elba furono così consegnati al regime sovietico, che vi stabilì il suo dominio dittatoriale. Di conseguenza, nazioni come l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Polonia, la Bulgaria, la Romania entrarono forzatamente a far parte dell’universo sovietico, insieme ai paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), sui quali Stalin aveva già messo le mani per suo conto, quando li aveva annessi nel 1939. Un caso a parte è rappresentato dalla Jugoslavia e dall’Albania, che pur entrando a far parte dell’universo comunista, riuscirono a mantenere, ciascuna a suo modo, una propria autonomia rispetto al colosso sovietico.

Dal punto di vista politico, l’Europa fu così divisa in due blocchi, quello occidentale e quello orientale, tra i quali ogni rapporto di fratellanza era praticamente interrotto. Simboli di tale divisione, che scavava un abisso incolmabile tra popoli appartenenti al medesimo continente e alla medesima civiltà, furono la cortina di ferro e il muro di Berlino, che sono rimasti in piedi fino al 1989, fin quando sono stati abbattuti.

La teoria della sovranità limitata
I paesi dell’Europa dell’Est non vennero mai ufficialmente annessi all’Unione Sovietica. Teoricamente, essi rimasero degli stati sovrani, che avevano i loro rappresentanti alle Nazioni Unite e che erano liberi, sempre teoricamente, di non prendere ordini da nessuno.
In pratica, la loro politica, sia interna sia estera, era sottoposta invece a quella del Cremlino; in tutti questi paesi il potere reale lo deteneva il Partito comunista locale, che prendeva appunto i suoi ordini da Mosca.
Eppure quei regimi dittatoriali, dove ogni diritto alla critica e all’opposizione era bandito, si fregiavano del titolo di democrazie popolari, come se in essi il popolo fosse veramente sovrano. Chiaro è che, dell'ideologia teorica marxista, nell'attuazione «pratica» era rimasto ben poco: già il fatto di aver instaurato una dittatura, rende palese il distacco e lo scarto tra il governo di Stalin e l'utopia de Il Capitale.  
Quali fossero i limiti di tale sovranità, del resto, lo si vide nel 1956, quando i carri armati russi intervennero per sedare la rivolta che era scoppiata in Ungheria e poi in Cecoslovacchia nel 1968, quando posero fine militarmente al «socialismo dal volto umano».
Leonid Breznev (3906-1982), enunciò la sua teoria della cosiddetta sovranità limitata, con la quale rendeva ufficiale che gli stati satelliti della Russia erano sì degli stati sovrani, ma solo nella misura in cui i loro atti non erano in contrasto con gli interessi dell’Unione Sovietica. A Budapest come a Varsavia, a Praga come a Sofia, non si poteva muovere foglia senza il permesso del Cremlino.

Una rivolta preparata in silenzio
Dopo le tragiche esperienze della rivolta di Budapest (1956) soffocata nel sangue, e della primavera di Praga (1968), anch’essa messa duramente a tacere, una coltre di silenzio cadde sull’Europa dell’Est, dove una censura feroce cercava di impedire che trapelasse in Occidente qualsiasi notizia riguardante eventuali dissensi nei riguardi del regime dominante.
Così poté prendere forma l’impressione che quei regimi, sia pur faticosamente, si stessero normalizzando. In realtà, nei paesi in questione, la rivolta al comunismo aveva assunto forme nuove, più sfumate, che tendevano ad evitare lo scontro aperto con l’oppressore sovietico, lavorando sulle coscienze e sulla consapevolezza individuale. 
Ecco perché, in Cecoslovacchia, l’opposizione al comunismo divenne soprattutto un’opposizione intellettuale, che trovò la sua più provocatoria espressione nel manifesto che prese il nome di Charta 77 e che venne sottoscritto nel gennaio 1977 da un gruppo di intellettuali che non condividevano la politica culturale del regime.
Ecco ancora perché, in Polonia, il sindacato libero dei lavoratori Solidarnosc, fondato alla fine degli anni Settanta da Lech Walesa, accentuò la sua connotazione cattolica, che era una sfida al marxismo ufficialmente imperante.
Ecco infine perché, in Ungheria, lo stesso Partito comunista, guidato dal normalizzatore Janos Kadar (1912-1989), accogliendo in parte le spinte che venivano dal popolo, cominciò anche ad aprire le proprie frontiere al capitalismo, al punto che il suo regime, un po’ sullo scherzo e un po’ sul serio, fu definito da chi ne seguiva le evoluzioni come una specie inedita di socialismo al gulash (piatto tipico della tradizionale cucina ungherese).
In questo modo, mentre apparentemente dormiva, la cosiddetta Europa dell’Est era invece piena di fermenti innovatori destinati poi a esplodere tutti insieme quando sarebbe scattata l’ora di quello che rimarrà nella memoria come l’incredibile 1989.

Che cosa accadde nell’incredibile 1989
Il 1989 fu un anno che ha visto, in Europa, l’esplodere di una serie di eventi che nessuno avrebbe mai potuto immaginare che potessero accadere in così poco tempo. Riportiamo qui di seguito, in rigoroso ordine cronologico, alcuni tra gli eventi più importanti.

- L’11 gennaio 1989 si riunisce a Budapest il parlamento ungherese, paese fin a quel momento di stretta osservanza cremlina, il quale approva una risoluzione, a dir poco rivoluzionaria, con la quale autorizza la creazione di partiti indipendenti. Viene così a cessare, almeno in Ungheria, la dittatura del regime comunista.

- A distanza di circa un mese, esattamente il 6 febbraio, ha inizio a Varsavia una tavola rotonda tra il governo comunista, il sindacato libero Solidarnosc e i rappresentanti ufficiali della Chiesa cattolica polacca. Il risultato concreto di questa tavola rotonda lo si ha il 5 aprile successivo, quando il governo comunista polacco riconosce ufficialmente Solidarnosc e indice libere elezioni nel paese.

- Il 2 maggio è di nuovo l’Ungheria che viene alla ribalta della cronaca con una decisione che sconvolge il sistema politico della cosiddetta Europa dell’Est: i soldati ungheresi, per ordine del governo, cominciano a smantellare la cortina di ferro che separa la stessa Ungheria dall’Austria. Passano pochi giorni ed ecco che, precisamente l’8 maggio, il leader comunista che detiene il potere a Budapest dal 1956, Janos Kadar, si ritira per dare spazio alle nuove forze che premono per restaurare completamente la democrazia nel paese.

Negli anni ’80 Gorbaciov e Reagan affrontarono la difficile questione del superamento della cortina di ferro.

- Il 17 maggio torna alla ribalta la Polonia, dove viene ufficialmente riconosciuta l'esistenza della Chiesa cattolica (prima ostinatamente negata). Conseguenza di tale riconoscimento è la proposta che, il 25 luglio successivo, il presidente della repubblica polacco Jaruzelski fa a Solidarnosc: entrare a far parte di una coalizione di governo. Questa proposta dà inizio ad una serie di trattative, in seguito alle quali uno dei maggiori esponenti di Solidarnosc, Tadeusz Mazowiecki, il 19 agosto diventa il primo capo di governo non comunista della Polonia uscita dalla Seconda Guerra Mondiale.

- Intanto le cose precipitano in Ungheria, dove è stato riabilitato Imre Nagy, l’uomo politico giustiziato nel 1956 perché aveva assunto il potere dopo la rivolta antisovietica che aveva insanguinato Budapest. Infatti, il 7 ottobre succede una cosa assolutamente incredibile: il Partito comunista ungherese rinnega il comunismo e si trasforma, per sopravvivere, in Partito socialista.

- Ma non è ancora finita. Il 23 ottobre l’Ungheria si proclama repubblica indipendente, sottraendosi alla pesante tutela dell’Unione Sovietica. Nello stesso tempo, quasi a dare una dimostrazione concreta della riacquistata indipendenza, permette il passaggio all’Ovest, attraverso il suo territorio, di 57.000 tedeschi della Germania dell’Est, che hanno così la possibilità di aggirare l’ancora invalicabile muro di Berlino. Questa breccia è la classica goccia che fa traboccare il vaso.

- Anche la Cecoslovacchia segue l’esempio dell’Ungheria e apre le sue frontiere al passaggio dei tedeschi orientali. Risultato: il 18 ottobre cade il capo carismatico della Germania dell’Est, Erich Honecker, costretto a cedere il potere al suo delfino Egon Krenz. Insomma, siamo ad un collasso che solo l’Unione Sovietica potrebbe fermare, facendo intervenire le sue truppe, come ha già fatto a Budapest nel 1956. Ma Gorbaciov si rifiuta di seguire la strada dei suoi predecessori. Anzi fa ancora di più: il 25 ottobre, mentre si trova a Helsinki, in Finlandia, annuncia che la dottrina di Breznev, che sanciva la sovranità limitata dei paesi del blocco orientale ruotanti nell’orbita sovietica, è ormai solo il reperto di un passato ormai finito. Queste parole significano, in pratica, che Mosca non muoverà un dito per salvare i suoi ormai fatiscenti regimi satelliti.

- Così invano Egon Krenz cerca di dare avvio, nella cosiddetta Repubblica democratica della Germania dell’Est, ad una specie di perestrojka tedesca. Il popolo gli prende la mano e il 9 novembre provoca, con il suo assalto in massa, la caduta del muro di Berlino che rappresentava, anche materialmente, la divisione tra le due Germanie. Finisce così, in un’atmosfera da inarrestabile festa popolare, la menzogna storica e geografica di una Europa dell’Est contrapposta a quella dell’Ovest: comincia una nuova storia.

Ecco perché nessuno si meraviglia quando poco dopo, a conclusione dell’incredibile 1989, il 29 dicembre si dissolve in Cecoslovacchia il regime comunista con l’elezione, a presidente della repubblica, del commediografo Vaclav Havei, il fondatore del movimento che aveva preso il nome di Charta 77. Questo passaggio di poteri viene ribattezzato subito, per il suo svolgimento pacifico, come la rivoluzione di velluto.

Il trapasso indolore della Bulgaria
Anche in Bulgaria, un paese dove il regime comunista non aveva dovuto superare eventi drammatici come la rivolta di Budapest e la primavera di Praga, improvvisamente questo regime ha un collasso interno che lo porta a dichiarare il proprio fallimento.
Risultato: il capo dello stesso partito, lo stalinista Todor Zhivkhov, viene deposto nel novembre dell’incredibile 1989. E non è ancora tutto. Per dimostrare concretamente al popolo che rinnega il suo passato dittatoriale, il Partito comunista bulgaro, come ha già fatto quello di Ungheria, si scioglie e rinasce dalle proprie ceneri con il nome di Partito socialista. In questo modo, il passaggio dalla dittatura alla democrazia può avvenire, anche in Bulgaria, senza drammi. È dunque un passaggio indolore che anticipa le prime elezioni libere, che avvengono nel giugno del 1990. Da queste elezioni, caso unico nell’Europa dell’Est investita dal vento della perestrojka, il Partito comunista "aggiornato" esce vittorioso, mentre il suo leader Andrei Lukanov deve fare i conti, in parlamento, con una nutrita opposizione. Gli anni Novanta, di conseguenza, si aprono in Bulgaria all’insegna delle restaurate libertà democratiche, come sono intese e applicate nelle democrazie occidentali.

La Jugoslavia è scoppiata
Il vento della perestrojka, soffiando da Mosca, è arrivato come un ciclone inarrestabile anche in Jugoslavia, il paese dove, grazie al prestigio, nazionale e internazionale, del suo capo Tito, il comunismo aveva potuto svilupparsi in modo autonomo rispetto al Cremlino.
È accaduto così che la Lega dei comunisti jugoslavi, il partito che deteneva saldamente il potere, dichiara il proprio fallimento e nel corso del suo XIV congresso, tenutosi nel gennaio del 1990, si è praticamente dissolto.
Le conseguenze di questa dissoluzione si sono fatte sentire subito in tutto il paese, composto di 6 repubbliche federate (Bosnia Erzegovina, Macedonia, Montenegro, Slovenia, Serbia e Croazia) e 2 regioni autonome (Kosovo e Vojvodina), spesso in contrasto tra di loro sia per ragioni etniche sia per ragioni storiche. Insomma, venuto meno il cemento del comunismo, le varie nazionalità hanno cominciato a rivendicare, rispetto al potere centrale, chi una maggiore autonomia e chi addirittura l’indipendenza. Così la Jugoslavia, in quanto stato unitario, è praticamente scoppiata e il risultato di questo scoppio è stato drammatico, perché ha dato luogo a una sanguinosa guerra civile di cui sono stati protagonisti, dall’agosto del 1991 al gennaio del 1992, soprattutto i serbi e i croati. Andiamo a studiare la questione più a fondo.
Nonostante il tentativo di rafforzare la cooperazione politica dei paesi europei con la nascita dell’Ue, l’Europa è scossa dai violenti conflitti che per quasi tutto l’ultimo decennio del XX secolo pervadono la penisola balcanica. Il crollo del regime comunista, infatti, accelera il processo di disgregazione della Jugoslavia, che dietro le spinte nazionaliste di sloveni, croati e bosniaci si frantuma in numerosi stati.
Dopo le brevi guerre che portano all’indipendenza la Croazia e la Slovenia, nel 1992 scoppia la guerra civile in Bosnia tra la comunità croata, quella serba e quella musulmana. Il conflitto provocherà una serie di indicibili atrocità e violenze e mostrerà la debolezza dell’Europa, impotente di fronte a decine di migliaia di morti e profughi. Solo l’intervento degli Stati Uniti, nel 1995, riesce a concludere il conflitto con la firma degli Accordi di Dayton. Nasce così la Bosnia-Erzegovina accanto alla Croazia, alla Slovenia e alla nuova Repubblica federale di Jugoslavia (formata da Serbia e Montenegro, oggi indipendenti l’una dall’altro).
All’inizio del 1999, però, l’area balcanica è di nuovo scossa dalla guerra, questa volta per l’indipendenza del Kosovo. Il conflitto tra serbi e albanesi nel Kosovo inizia nel 1913, come conseguenza della Conferenza di Londra (che, a conclusione della prima guerra balcanica, aveva assegnato la provincia balcanica alla Serbia). Gli albanesi del Kosovo si trovano così a passare dall’Impero ottomano al dominio serbo. È solo con l’inizio del regime comunista che la regione riesce a ottenere il sospirato status di provincia autonoma; negli anni Ottanta, però, con l’affermarsi di Slobodan Milosevic, lo perde nuovamente. Si giunge così al 1996, quando fa la sua comparsa l’Uck. Si tratta di un vero e proprio esercito di liberazione, che inizia ad attuare efficaci operazioni di guerriglia e riesce a porsi sin da subito come scomodissimo ostacolo rispetto alle mire di Milosevic. È solo nel marzo 1998, tuttavia, che la situazione diventa veramente esplosiva: le forze speciali serbe iniziano violenti rastrellamenti dei villaggi a maggioranza albanese. La situazione kosovara attira così l’attenzione della comunità internazionale e, nonostante gli sforzi diplomatici del mediatore statunitense Richard Holbrooke, tale attenzione finisce per concretizzarsi nell’autorizzazione da parte della Nato di una guerra destinata a durare ben 78 giorni. In questi due mesi e mezzo le milizie serbe si abbandonano a feroci operazioni di pulizia etnica ai danni delle popolazioni albanesi, creando una situazione di obiettiva emergenza umanitaria. I bombardamenti Nato, inoltre, compiono una sconcertante serie di «errori», colpendo frequentemente obiettivi non militari.
L’offensiva, in ogni caso, porta, nel giugno, ad un accordo che prevede lo sgombero dal Kosovo delle truppe serbe e la loro sostituzione con un contingente formato da 50.000 uomini e posto sotto il comando di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, che solo a posteriori ha legittimato l’intervento della Nato, istituisce un protettorato internazionale incaricato di costruire e gestire l’amministrazione civile della regione. Pochi giorni dopo, mentre rientrano nel Kosovo i profughi di etnia albanese fuggiti, decine di migliaia di serbi e rom iniziano a lasciare la regione, per scampare alle operazioni di «contropulizia etnica» messe in atto dall’Uck.
Nel novembre 2007, infine, la paziente mediazione delle Nazioni unite subirà un’improvvisa accelerazione: la formazione nel Kosovo di un governo di larga coalizione guidato dall’ex capo guerrigliero Hashim Thaci porrà le basi per la proclamazione unilaterale dell’indipendenza del Kosovo. Quest’ultima verrà prontamente riconosciuta da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia e, al contrario, fortemente osteggiata da Spagna, Grecia, Cipro, Romania, Russia e Cina. 
Ripercorriamo ora, brevemente, le tappe principali della storia dell'Europa orientali negli ultimi anni del XX secolo.

1981 
in Kosovo si sviluppa un movimento che chiede la repubblica federata, osteggiata dalla popolazione serba

1990
vengono indette elezioni multipartitiche nelle sei repubbliche:
- in Croazia venne eletto il nazionalista Tuđman 
- in Slovenia il socialdemocratico Kučan 
- in Bosnia ed Erzegovina fu eletto il nazionalista musulmano Izetbegović 
- in Macedonia venne eletto il comunista Gligorov
- in Serbia fu confermato presidente il comunista Milošević 

1991 
Slovenia e Croazia ottengono l'indipendenza. Tra giugno e luglio viene combattuta una guerra tra l'esercito jugoslavo e sloveni, con la resa dell'esercito federale. Dal 1991 al 1995 si combatte la guerra tra croati e serbi della Croazia, che si conclude con la vittoria croata.

1992 
La Bosnia ed Erzegovina si dichiara indipendente. Fino al 1995 si verificano diversi conflitti tra musulmani contro croati di Bosnia e musulmani e croati contro i serbi di Bosnia, che si concludono con l'accordo di Dayton, con il quale si crea una repubblica indipendente di stampo federale.

La Cecoslovacchia, stato europeo nato nel 1918, in seguito ad una decisione parlamentare viene suddivisa in due entità statali separate che, dal 1º gennaio 1993, presero il nome di Repubblica Ceca e Slovacchia.

Dopo l'indipendenza della Slovenia, della Croazia, della Bosnia ed Erzegovina e della Macedonia, lo Stato jugoslavo era quindi limitato ai territori della Serbia e del Montenegro che rimasero uniti fondando la Repubblica Federale di Jugoslavia il 27 aprile 1992.

1996
Tensioni tra serbi del Kosovo: maggioranza albanese contro maggioranza serba. Per 3 anni il conflitto continua, concludendosi dopo quasi tre mesi di bombardamenti NATO sulla Jugoslavia, con l'Accordo di Kumanovo. 

2003
Il 3 settembre 2003 la Repubblica Federale di Jugoslavia cambia nome, diventando l'Unione Statale di Serbia e Montenegro. La federazione viene sciolta il 21 maggio 2006, dando vita ai due stati indipendenti di Serbia e Montenegro.

2008
Il 17 febbraio 2008 il Kosovo dichiara la propria indipendenza e la costituzione in repubblica, con l'ostilità della Serbia.

 

ATTIVITÀ PER LE COMPETENZE

1- Perché si parla di falso storico, riferendosi all’Europa dell’est?

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2- Quali sono i due fatti salienti del 1989?

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3- Riporta qualche esempio di rivolta al regime sovietico che si distingue dalle precedenti.

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4- Quale posizione, in certo senso inaspettata, assume Gorbaciov?

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5- Cosa ne pensi della caduta del muro di Berlino?

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