Curcio Medie

L’architettura della ricostruzione e della sperimentazione
Per forza o per piacere, l’architettura fu uno dei primi aspetti che il secondo dopoguerra, soprattutto in Europa, dovette affrontare.
Infatti, nelle aree che più delle altre avevano ospitato le operazioni militari, la ricostruzione non fu solo politica o economica, ma anche materiale. Le città erano state distrutte dai bombardamenti; ora risorgevano, talvolta liberamente, altre volte con un nuovo concetto sia dell’organizzazione urbanistica che dello stile, in accordo con le tendenze della nuova società industriale.
Nel 1946 Londra fu circondata da otto città satellite per i lavoratori impiegati nella capitale, organizzate con un numero più o meno preciso di abitanti, aree verdi e tutti i servizi necessari, e il loro successo fu tale che alcune di quelle caratteristiche dovettero essere sacrificate per la necessità di ospitare più persone del previsto.

Dove mancò questa nuova sensibilità, sorsero degli immensi quartieri-dormitorio, privi di servizi e per questo non autonomi, che finirono per aggravare la situazione già difficile della vita in città. Accadde a Parigi, anche se il famoso architetto francese Le Corbusier aveva progettato un modello di edificio che oltre alle abitazioni ospitava un asilo, una palestra, un ristorante, sale riunioni e servizi comuni a tutti gli abitanti, come una piccola città autosufficiente. Ancora negli anni Settanta la densità della popolazione parigina era un problema tanto acuto, che si programmò la costruzione di ventotto grattacieli e otto città satellite.

La Germania, che uscì dalla guerra quasi completamente distrutta, si preoccupò solo di ricostruire il più in fretta possibile, senza una precisa pianificazione. La Russia affidò invece la ricostruzione all’Istituto Centrale di Urbanistica, ma i criteri stilistici che, per rispecchiare la grandezza del regime, dovevano mantenere la grandiosità delle strade e dei palazzi riccamente decorati, non bastarono alle esigenze della popolazione e si dovette accettare uno stile meno pretenzioso e più comune.
La rigida pianificazione, interamente affidata allo Stato, finì per dare vita a quartieri tutti uguali tra loro, ma consentì se non altro di attuare una razionale suddivisione della città in aree industriali, abitative, agricole, e così via.

Oltreoceano fu tutto diverso. Gli Stati Uniti non avevano avuto la guerra in casa propria e, invece di sopportare una dolorosa quanto faticosa ricostruzione, liberarono presto la fantasia e le possibilità tecniche, attraverso i grandi grattacieli di acciaio e vetro degli anni Cinquanta, fino alle nuove forme, azzardate e mai sperimentate prima, degli anni successivi.

La “morte dell’arte”
L’arte subì dal secondo dopoguerra un profondo mutamento, già preparato dai movimenti di inizio secolo. Si continuò a rivendicare l’autonomia del prodotto artistico, che finì per diventare espressione della personalità propria di ciascun artista.
Le sue funzioni tradizionali, dalla comunicazione al piacere della bellezza, furono messe in discussione e molti artisti arrivarono persino a considerare l’arte priva di alcuna utilità. A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta le neoavanguardie mutarono completamente i soggetti, i materiali usati, le tecniche di realizzazione. Con la nuova figura del mercante d’arte, che vendeva le opere per conto dell’artista, si perse anche il rapporto tra quest’ultimo e il committente. Fu così che l’arte divenne un bene di consumo e un prodotto commerciale come altri, tanto che qualcuno arrivò a parlare di “morte dell’arte”. Si aprì così il periodo della sperimentazione. L’oggetto d’arte, il quadro o la statua della tradizione, non esisterà più.

Nonostante la sostanziale libertà da ogni vincolo formale, vi furono dei movimenti caratteristici anche in questo periodo. Negli anni Cinquanta e Sessanta, l’arte informale fu l’arte della superficie, che divenne il vero soggetto dell’opera: pezzi di tela, legno, plastica, ferro furono organizzati in modo da formare delle superfici ruvide, di diversi strati, in cui i materiali stessi creavano le forme dell’opera; oppure la superficie divenne la base su cui l’artista si esprimeva in maniera istintiva, anche casuale, ad esempio gettando il colore sulla tela (fu l’Action Painting, ovvero “pittura d’azione”).

Nacque poi l’arte cinetico-visuale, in cui la base dell’opera era la luce in movimento, ottenuta da fonti luminose che si spostavano o si accendevano e spegnevano secondo ritmi stabiliti oppure filtravano attraverso superfici mobili.

Dall’Inghilterra agli Stati Uniti si diffuse poi la Popular Art, meglio nota come Pop Art, che prese come propri soggetti gli oggetti della vita quotidiana del mondo contemporaneo: un sandwich, un telefono, una bottiglia di Coca-Cola stilizzati, ingigantiti o ripetuti all’infinito, divennero così per molti, come Andy Warhol, una nuova forma di protesta contro il consumismo e i suoi simboli.

Marilyn Monroe, Andy Warhol. Tate Modern Gallery, Londra

Nello stesso periodo si svilupparono :
- la body art, o “arte del corpo”, dove l’artista si esprimeva attraverso il proprio corpo (proiettandovi immagini, dipingendolo, con pose o movimenti particolari) e creava in questo modo delle opere d’arte in movimento e irripetibili;
- la land art, o “arte del territorio”, agiva direttamente sul paesaggio, ad esempio modellando la terra, disegnando sulla sabbia o “impacchettando” monumenti esistenti, come fece Christo;
- l’iperrealismo, che non volle più dipendere dall’interpretazione o dalla capacità tecnica dell’artista, ma riprodusse in maniera del tutto impersonale un oggetto così come è nella realtà, come se fosse una fotografia o una perfetta copia tridimensionale;
- la videoart che ripropose l’arte come immagine visiva, attraverso la fotografia, il cinema, i nuovi mezzi elettronici.

Dall’altro lato di questo variegato panorama, a partire dagli anni Cinquanta la musica si avviava verso una nuova era, con la nascita del rock.

I Beatles durante l'esibizione all'Ed Sullivan Show, 1964.

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