Curcio Medie

Il comunismo e il maoismo
Il comunismo è il sistema politico nel quale la proprietà dei beni è comune.
Esso è caratterizzato dall’assenza di proprietà privata, dall’uguale diritto al lavoro, dalla ripartizione dei prodotti in base alle necessità.

L’idea della collettivizzazione ha radici profonde nella storia: già nell’antica Grecia il filosofo Platone auspicava la nascita di uno Stato in cui vi fosse una comunità di beni, di donne e di figli per i governanti, che così avrebbero potuto occuparsi più facilmente dell’interesse del bene pubblico.
Anche gli scrittori cristiani predicarono a favore di una comunità di beni ma, in quel caso, l’esaltazione dei poveri e la condanna dei ricchi non derivava dalle necessità di realizzare un maggior benessere, ma erano viste in rapporto ad una giustizia divina.

Il comunismo moderno, invece, si fonda su tutt’altri presupposti. Esso ha alla base la nascita della società capitalistica e della rivoluzione industriale, perché solo con la loro nascita ed evoluzione si posero nuovi problemi. Con lo sviluppo dell’età industriale, infatti, non tardò a presentarsi il conflitto tra gli operai ed i capitalisti. La diffusione delle idee di Marx ed Engels, esposte nel 1948 nel Manifesto del Partito Comunista, mutò radicalmente le prospettive di lotta del ceto operaio: per la prima volta il comunismo non consisteva in una serie di riforme imposte dall’alto, bensì nella conquista del potere da parte del proletariato industriale organizzato in partito.
La vittoria dipendeva dall’economia capitalistica: questa, producendo l’impoverimento progressivo dei lavoratori, li avrebbe uniti, sviluppando la loro coscienza di classe. Nella società comunista ognuno avrebbe ricevuto in base ai bisogni e lo Stato non avrebbe avuto necessità di esistenza. Su queste teorie si sviluppò, nel 1917, la rivoluzione russa. Lenin, il suo fautore e teorico, sostenne che in una prima fase (detta socialismo) lo Stato sarebbe ancora esistito nella forma della dittatura del proletariato: il proletariato industriale, tramite il Partito Comunista, avrebbe gestito l’intero potere. La dittatura del proletariato, inoltre, avrebbe rappresentato solo una fase di transizione tra la società capitalistica e quella comunista.

In Cina, invece, la rivoluzione comunista si basò essenzialmente sul pensiero di Mao Tse-tung. Fino agli anni Sessanta, tuttavia, il maoismo non venne considerato una teoria socialista indipendente dal marxismo-leninismo; fu a partire dalla rottura dei rapporti tra Cina e URSS (soprattutto quando la Cina iniziò a proporsi come modello per gli altri Paesi comunisti) che il contrasto ideologico divenne decisivo.

L’opposizione più forte, per Mao, non era quella tra la borghesia capitalistica e il proletariato, bensì quella tra le nazioni sottosviluppate (rappresentate in Cina dalla popolazione delle campagne) e quelle a sistema capitalistico (le città). La presa del potere da parte del Partito Comunista, di conseguenza, non era sufficiente a garantire il passaggio al socialismo (vero fine della rivoluzione) e la stessa rivoluzione non bastava a garantire l’uguaglianza dei cittadini. L’emancipazione politica e sociale del popolo, al contrario, doveva essere conquistata con una continua opera, che andava svolta in seguito alla rivoluzione.
Il fine ultimo era quello di porre fine ad ogni divisione sociale del lavoro e, soprattutto, eliminare tutti coloro che vivono “sulle spalle” dei lavoratori (a cominciare dagli intellettuali). Non si doveva, quindi, attendere la modernizzazione di un Paese per portare a compimento la rivoluzione; occorreva semmai iniziare subito a rovesciare i rapporti fra gli uomini. Alla base della rivoluzione culturale proposta da Mao nel 1966, vi fu appunto l’esigenza di accelerare questo processo: gli intellettuali, i dirigenti, i funzionari furono infatti fortemente contestati, perché accusati di ritardare il progresso delle masse.

La religione
La nascita della Repubblica Popolare Cinese rappresentò per tutti i religiosi e fedeli l’inizio delle persecuzioni. La posizione cinese, però, fu meno rigida di quella sovietica e, talvolta, piuttosto che impiegare la repressione, si tentò di conciliare i principi del regime con la religione locale. Secondo Mao, infatti, sarebbe risultato inutile annullare la religione quando questa sarebbe scomparsa da sola se solo se ne fosse dimostrata l’inutilità. In realtà, la religione più diffusa in Cina, il confucianesimo, è fondamentalmente una regola di vita che ha insegnato alla popolazione ad essere disciplinata, ad obbedire, a seguire con fiducia il potere. I principi di Confucio, perciò, non trovarono difficoltà ad essere adattati alle nuove esigenze comuniste e lo stesso Mao ricorse spesso alle citazioni tratte dalle fonti confuciane.

Statua di Confucio

Diverso fu l’atteggiamento verso il taoismo e verso il buddhismo. Il taoismo, basato sull’individualismo, venne visto dal regime come nemico e duramente perseguitato. Verso il buddhismo, invece, il comportamento del Governo non fu sempre coerente: assicurò di rispettare il Dalai Lama, il capo della comunità buddhista ma, nello stesso tempo, espropriò ed incamerò i suoi beni, mentre i monaci venivano costretti ad abbandonare i monasteri per svolgere una funzione utile per la società.

Contro il cristianesimo, infine, che al momento dell’istituzione del regime rappresentava solo una piccolissima minoranza della popolazione, la lotta fu subito durissima: il 23 luglio 1950 venne votato il decreto che stabiliva l’espulsione immediata di tutti i missionari stranieri; le scuole furono chiuse; i beni sequestrati; tutti i sacerdoti, i vescovi e i laici furono rinchiusi in carcere. Qualche anno dopo, tuttavia, si permise l’esistenza di una Chiesa nazionale, separata però da Roma.

Con lo scoppio della rivoluzione culturale, inoltre, si assisté ad un irrigidimento del comunismo verso tutte le religioni: tutti i luoghi di culto, di conseguenza, vennero chiusi e persino il confucianesimo subì dure critiche. Poco dopo la morte di Mao, nel 1978, con la progressiva apertura della Cina verso sistemi più liberali, fu finalmente concessa la libertà religiosa, intesa però come libertà di credere, non di professare una religione senza l’intromissione dello Stato.

Tuttavia nessuna delle religioni scomparve e, tra il 1978 ed il 1990, il cristianesimo aumentò addirittura i suoi seguaci, sostenuti da una “Chiesa sotterranea” (che opera clandestinamente ed è fortemente incoraggiata dalla Chiesa di Roma).