Curcio Medie

Saggio di redazione

Le Disposizioni transitorie e finali
La parte più interessante delle Disposizioni transitorie e finali della Costituzione italiana è quella che fissa (in alcuni casi con eccessivo ottimismo) i tempi per la realizzazione del programma attuativo. Un anno è il margine di tempo concesso dalla nostra Carta per armonizzare la Costituzione con le precedenti leggi in materia costituzionale (XVI disposizione), per eleggere i consigli regionali e provinciali (VIII disposizione) e per riordinare il tribunale supremo militare (VI disposizione, secondo comma). In realtà, le leggi di riordino dei tribunali militari arrivarono solo nel 1981 e nel 1988, le amministrazioni provinciali furono formate nel 1951 e i consigli delle regioni ordinarie furono eletti nel 1970 (ricevendo le prime competenze, poi successivamente ampliate, solo nel 1972).

Le Disposizioni, poi, prevedevano tre anni per definire il sistema di autonomie regionali e locali (IX disposizione) e cinque anni per la revisione degli organi speciali di giurisdizione (VI disposizione, primo comma). Tuttavia la prima legislatura (8 maggio 1948 - 24 giugno 1953) riuscì soltanto a istituire il Consiglio supremo di difesa, ad approvare una legge sugli organi regionali, a licenziare una legge delega per il decentramento delle amministrazioni statali e a legiferare circa l’istituzione della Corte costituzionale (che, però, fu formata solo nel 1955).
L’istituzione del Consiglio Nazionale dell’Economia arrivò nel 1957 e, l’anno dopo, fu la volta del Consiglio Superiore della Magistratura. Nel 1971 furono istituiti i tribunali amministrativi regionali ma, in altri casi, l’attesa fu molto più lunga: per le leggi di riordino degli organi di autogoverno del Consiglio di Stato bisognò aspettare il 1982, per quelle della presidenza del Consiglio e della Corte dei conti il 1988, per quelle dei comuni e delle province il 1990, per quelle dei ministeri il 2000. Solo il codice di procedura penale è stato interamente riformato (1988), mentre la legge di pubblica sicurezza e i codici civile e processuale sono stati solo parzialmente ritoccati. L’ordinamento giudiziario, infine, è tuttora disciplinato dal regio decreto n. 12 del 1941.

La magistratura
La Costituzione stabilisce che la magistratura, pur esercitando il potere legislativo in nome del popolo, non è tenuta a giudicare in base alla volontà popolare ma esclusivamente in base alla legge. L’articolo 101 della Carta, infatti, recita: «La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge». L’indipendenza della magistratura, non solo dal potere politico ma anche da qualsiasi autorità interna alla stessa magistratura, è garantita dalla Costituzione attraverso la trasformazione del CSM (istituito dalle leggi n. 511 e n. 689 del 1907) da organo consultivo e amministrativo dipendente dal governo a vero e proprio organo di autogoverno. Così, infatti, recita l’articolo 104: «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.
Il Consiglio superiore della magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica. Ne fanno parte di diritto il primo presidente e il procuratore generale della Corte di cassazione. Gli altri componenti sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio. Il Consiglio elegge un vice presidente fra i componenti designati dal Parlamento. I membri elettivi del Consiglio durano in carica quattro anni e non sono immediatamente rieleggibili. Non possono, finché sono in carica, essere iscritti negli albi professionali, né far parte del Parlamento o di un Consiglio regionale».

Al CSM spettano «le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati» (articolo 105) e solo su sua decisione, «adottata o per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario o con il loro consenso», i magistrati «possono essere dispensati o sospesi dal servizio» e «destinati ad altre sedi o funzioni» (articolo 107, comma primo).

Il giusto processo
Come sempre avviene nella Costituzione italiana, tuttavia, i diritti attribuiti vengono controbilanciati da corrispondenti doveri: se, infatti, il diritto della magistratura è quello all’indipendenza, il dovere corrispettivo è quello dell’imparzialità. A questo proposito riteniamo opportuno riportare integralmente il nuovo articolo 111 della Costituzione (i primi cinque commi sono stati aggiunti con l’articolo 1 della legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999): «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata.

Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore.
La legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati. Contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge. Si può derogare a tale norma soltanto per le sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra. Contro le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti il ricorso in Cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione».

Voglia di riforme
Tutto bene, quindi? Pare di no. L’Italia, a causa dell’eccessiva durata dei processi, è stata condannata dalla Corte di Giustizia per violazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Nel nostro Paese, infatti, la durata media del processo civile è pari a 337 giorni per i processi di competenza del giudice di pace, a circa 1000 per i giudizi di primo grado e a 1338 per il secondo grado. Per quanto riguarda i ricorsi in Cassazione, la durata media è di 33 mesi per le cause civili, di 1019 giorni per quelle previdenziali e di 219 giorni per quelle penali. Risultano sconosciuti gli autori dell’81% dei delitti denunciati e del 96% dei furti. Altri punti dolenti riguardano sia l’attuazione delle leggi sulla formazione e sulle carriere dei magistrati, sia quella del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
La magistratura, inoltre, incorpora sia la funzione giudicante, sia quella requirente (stesso concorso, stessa formazione, stessa carriera e possibilità di passare da una funzione all’altra sotto la supervisione del CSM che, come abbiamo visto, è composto per due terzi da magistrati eletti dai propri colleghi). Non sembra, insomma, che l’esigenza di una «nuova legge sull’ordinamento giudiziario in conformità con la Costituzione» posta dalla settima disposizione transitoria della Costituzione sia stata ancora pienamente soddisfatta.

Sin dai tempi della Bicamerale del 1997 (che si proponeva un progetto di riforma riguardante la forma di Stato, la forma di governo, il rapporto tra i due rami del Parlamento e la funzione degli istituti di garanzia), fu proprio il tema della giustizia a far «saltare il tavolo» e a impedire una riforma costituzionale condivisa. Con la cosiddetta «riforma Castelli», perciò, il governo di centro-destra sorto dalle elezioni del maggio 2001 decide di affrontare la questione di petto.

La riforma Castelli
Con l’espressione «riforma Castelli» (che prende il nome dal ministro della Giustizia dei governi Berlusconi II e III) ci si riferisce alla legge di riforma dell’ordinamento giudiziario approvata il 20 luglio 2005 dal Parlamento italiano.
La legge, in realtà, era già stata approvata in via definitiva nel novembre 2004, ma il presidente della Repubblica Ciampi l’aveva rinviata alle Camere, ravvisando alcuni profili di incostituzionalità (tra i quali l’introduzione di una politica giudiziaria guidata dal ministero).
Del resto, alcuni osservatori non avevano mancato di rilevare alcune imbarazzanti somiglianze con il famigerato Piano di rinascita democratica di Licio Gelli (che prevedeva cose come la responsabilità del CSM nei confronti del Parlamento, la riformulazione dei criteri di selezione per merito, l’imposizione di limiti di età per le funzioni di accusa, la separazione delle carriere, l’introduzione di esami psico-attitudinali preliminari all’eccesso in carriera e la responsabilità civile dei magistrati).

Nella sua versione riveduta e corretta, in ogni caso, la legge Castelli si presenta come una legge delega (vale a dire consegna al governo delle direttive da attuare mediante l’emissione di appositi decreti legislativi). I contenuti della legge riguardano le seguenti questioni:

  1. separazione delle funzioni: il magistrato dovrà scegliere, a inizio carriera, quale funzione esercitare (previa verifica psico-attitudinale) e potrà cambiarla solo dopo cinque anni (previ corso di formazione, superamento di un esame orale e cambio di distretto obbligatorio). La versione della legge bocciata da Ciampi, invece, prevedeva la separazione delle carriere (giudicata contraria alla Costituzione, la quale prevede, appunto, l’appartenenza dei magistrati inquirenti e giudicanti a un unico ordine).
  2. selezione e formazione dei magistrati: sarà compito di un’apposita Scuola Superiore della Magistratura, che organizzerà corsi di formazione (con frequenza obbligatoria) e produrrà valutazioni decisive sia per la carriera del magistrato, sia per eventuali pronunciamenti del Consiglio Superiore della Magistratura nei suoi confronti.
  3. progressioni di carriera: accanto ai criteri di anzianità, vengono introdotti anche criteri meritocratici, da verificare mediante appositi esami.
  4. procedure disciplinari: sono di competenza del procuratore capo della Cassazione e del ministro della Giustizia, cessano di essere discrezionali e vengono sottoposte ad azione obbligatoria. Rispetto alla legislazione precedentemente vigente, inoltre, vengono considerati illeciti da perseguire la militanza nei partiti politici, il cosiddetto «provvedimento abnorme» e ogni discutibile interpretazione di norme di diritto e valutazione di fatti e prove. Diventa, infine, obbligatoria la presenza di un rappresentante del ministero al procedimento disciplinare.
  5. organizzazione delle procure: il procuratore capo diventa il responsabile unico della procura, assume il potere di revocare in qualsiasi momento i propri sostituti e riceve l’esclusiva dei rapporti con la stampa (con la conseguenza che qualsiasi notizia non fornita direttamente da lui diventa automaticamente illecito disciplinare).
  6. decentramento funzionale: vengono create direzioni generali del ministero della Giustizia a competenza regionale e viene introdotta la figura del manager (con funzioni puramente organizzative) nelle procure più grandi.

La riforma Mastella
Durante il successivo governo Prodi, tuttavia, la riforma Castelli viene modificata da un disegno di legge presentato dal ministro della Giustizia Clemente Mastella, approvato definitivamente dalla Camera il 23 ottobre 2006.
Il DDL Mastella fissa a dieci anni la prescrizione per gli illeciti disciplinari; introduce un «filtro» alle richieste di procedura disciplinare; limita il divieto alla militanza nei partiti politici; riformula l’illecito di «provvedimento abnorme» (ridefinendolo «adozione di provvedimenti non previsti da norme vigenti ovvero sulla base di un errore macroscopico o di grave e inescusabile negligenza»); non considera perseguibili le interpretazioni di diritto, di fatti e di prove; abolisce la presenza obbligatoria del rappresentante del ministero della Giustizia durante il procedimento disciplinare; restituisce al sostituto procuratore rimosso dal procuratore capo il diritto di portare il conflitto davanti al CSM; sposta al 31 luglio 2007 l’entrata in vigore dei provvedimenti sulle procedure di carriera e sulla separazione delle funzioni.

Il 7 marzo 2007, inoltre, un secondo DDL Mastella (approvato definitivamente il 28 luglio 2007) sgancia la progressione di carriera dalla progressione economica, cancella l’obbligo di scelta della funzione a inizio carriera, sottrae alla Scuola Superiore della Magistratura le competenze riguardanti la valutazione delle carriere e l’aggiornamento professionale, riforma i criteri di nomina del consiglio direttivo (7 spettanti al CSM e 5 al ministro della Giustizia).

Gli «avvocati dell’accusa»
Ma non finisce qui: l’8 maggio 2008 – a poco più di un anno dall’approvazione della «riforma Mastella» – Silvio Berlusconi torna al governo e annuncia subito l’intenzione di varare una nuova riforma della giustizia entro la fine dell’anno. Pochi mesi dopo, il 20 settembre, il Cavaliere prende spunto da una sua privata vicenda giudiziaria per ribadire il concetto: non gradendo, infatti, che i giudici del processo Mills – di fronte all’assenza degli avvocati del premier per «impegni istituzionali» – abbiano deciso di svolgere l’udienza facendo ricorso ad avvocati d’ufficio, coglie l’occasione per raccontare l’accaduto parlando di sé in terza persona: «il presidente del Consiglio ieri, a Milano, non ha ottenuto per i suoi difensori, che erano impegnati in lavori parlamentari, che fosse spostata l’udienza.
È una cosa veramente impensabile che qualcuno che si alza alle sette e un quarto di mattina e lavora fino alle due e mezza di notte nell’interesse del suo Paese, venga trattato così da due funzionari che utilizzano la giustizia per ragione politica. È una cosa veramente inaccettabile. Credo che da questa esperienza trarremo più forza per fare una riforma della giustizia che garantisca a tutti i cittadini italiani accusati di un reato di entrare in un’aula di tribunale sicuri di avere un giudice indipendente. Bisogna dividere i giudici dai pubblici ministeri».
Nella visione berlusconiana, i PM si chiameranno «avvocati dell’accusa» e «dovranno avere carriere e luoghi di lavoro diversificati rispetto a quelli dei magistrati giudicanti. Per parlare con il giudice dovranno dargli del “lei” e dovranno fissare un appuntamento, esattamente come fanno gli avvocati della difesa». Dovranno, inoltre, «entrare dalla porta dopo aver bussato con il cappello in mano».

Seppure usando toni lievemente sopra le righe, Berlusconi non fa altro che rilanciare la proposta di separazione delle carriere, facendo proprie le critiche tradizionalmente avanzate da molti avvocati della difesa all’attuale ordinamento giudiziario. Viene lamentato, infatti, un forte squilibrio (a favore dei PM e a sfavore della difesa) nella ricerca degli elementi di prova, anche perché le risultanze delle indagini dell’accusa vengono spesso consegnate in ritardo alla difesa. Gli avvocati, inoltre, sostengono che i PM tendano a non rispettare l’obbligo di «svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini», a esercitare indebite pressioni sui testimoni per ottenere testimonianze conformi alle loro tesi accusatorie, a fare un uso distorto della carcerazione preventiva e delle intercettazioni telefoniche, a non rispettare i termini di durata delle indagini preliminari, ad adottare una totale discrezionalità nello scegliere le cause da perseguire e, dulcis in fundo, a violare il segreto istruttorio.

Verso la «riforma Alfano»?
Il compito di elaborare la nuova riforma della giustizia spetterà al nuovo ministro della Giustizia, Angelino Alfano, già noto per aver dato il suo nome al celebre «lodo» del 22 luglio 2008 (con il quale si è garantita la sospensione dei processi per le prime quattro cariche dello Stato). L’idea del giovane guardasigilli (38 anni) è di ripartire dalla «bozza Boato» su cui, già nella Bicamerale dalemiana, maggioranza e opposizione avevano raggiunto una provvisoria convergenza.
Gli obiettivi dell’«agenda Alfano» sono la riforma del processo civile, l’accelerazione del processo penale, la riforma costituzionale del CSM e dell’obbligatorietà dell’azione penale, la netta separazione tra giudici e PM, l’introduzione di misure volte a fronteggiare il problema del sovraffollamento delle carceri.
In concreto, si pensa di affidare il pubblico ministero a un CSM differente da quello dei giudici e di approntare una legge costituzionale che divida l’attuale organo di autogoverno della magistratura in tre parti: una per i giudici (a cui verrebbe garantita una autonomia formale dal potere politico), una per i PM (ricondotti al controllo del governo, che avrebbe il potere di indicare le priorità in materia di politica criminale), una per le questioni disciplinari (in maniera di togliere ai magistrati il potere di giudicare se stessi).

Anche l’eventuale mitigazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale con quello di opportunità richiederebbe una modifica costituzionale, dal momento che l’art. 112 della nostra Carta non ammette deroghe («Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale»). L’unica mitigazione concessa è quella prevista dal codice di procedura penale (che conferisce ai PM un potere di valutazione preventiva che molti, tuttavia, giudicano viziato da eccessiva discrezionalità).
Nei Paesi in cui il pubblico ministero è sottoposto al ministero della Giustizia, invece, sono possibili diverse soluzioni: in Belgio, ad esempio, i PM sono di nomina reale e il guardasigilli ha il potere di ordinare l’esercizio di un’azione penale (ma non di impedirlo); in Francia i PM hanno il potere sia di archiviare una causa per motivi di opportunità, sia di decidere di ricorrere ad una mediazione; in Germania, di fatto, l’obbligatorietà dell’azione penale è osservata soltanto per i reati di una certa gravità; in Inghilterra sono la polizia e l’Attorney General a esercitare l’azione penale e non sono sottoposti a nessuna forma di obbligatorietà.

Per quanto riguarda poi la riforma del processo civile, l’idea di Alfano è di introdurre una sorta di «filtro» mediante la creazione di un collegio con il compito di valutare l’ammissibilità dei ricorsi prima che arrivino sul tavolo dei giudici della Corte di Cassazione. In ottobre, tuttavia, il Parlamento ha approvato un emendamento che vieta ogni ricorso in Cassazione dopo due giudizi conformi su un procedimento civile: in tal modo, riducendosi il numero di ricorsi, verrebbe meno l’«esigenza» del filtro (motivata, appunto, con l’affollamento dei ricorsi civili in Cassazione). Alfano pensa, inoltre, di introdurre l’e-justice («giustizia telematica, con la notifica elettronica e altre importanti innovazioni tecnologiche»), di semplificare i riti («ce ne sono 30: troppi» e di promuovere «l’accelerazione dei processi e la risoluzione di alcuni di essi per via extragiudiziale».

Relativamente, infine, al problema dell’affollamento delle carceri, si pensa di affrontarlo espellendo i detenuti stranieri condannati a meno di due anni (si tratta di circa 4200 persone), introducendo il braccialetto elettronico e creando strutture alternative al carcere per le madri con bambini piccoli.