Curcio Medie

Saggio di Flavia Cristaldi

Se i nostri antenati non si fossero spostati lungo le terre emerse, non si fossero divisi in gruppi e poi riuniti, mescolati, e poi ancora allontanati, in base a quanto dimostrano recenti ricerche (Behar et al., 2008), probabilmente non ci sarebbe stata nessuna storia per il genere umano.
A quanto emerge dagli studi genetici effettuati sui resti rinvenuti dei primi ominidi viventi circa 150.000 anni fa, una prima comunità si divise in due gruppi che si allontanarono tra loro per dar vita a un processo evolutivo distinto, per riunirsi in un nuovo gruppo dopo circa 100.000 anni.
L’ipotesi più accreditata in grado di spiegare questo primo spostamento di popolazione vede nella migrazione una risposta alle aride condizioni climatiche che si andavano accentuando nella zona dell’Africa sud-orientale in cui la prima comunità viveva, quando un numero relativamente cospicuo di individui si spostò per cercare nuove aree in cui sopravvivere.
Si suppone, quindi, che la prima forma di spostamento di massa sia avvenuto a causa di un cambiamento climatico e che abbia rappresentato una risposta evolutiva efficace, dal momento che noi oggi esistiamo e possiamo parlare di movimenti migratori. Tutta la storia dell’umanità è punteggiata da grandi esodi, da fughe, da colonizzazioni, da partenze e da ritorni, e se così non fosse stato, sicuramente, non si sarebbe potuto assistere a una diffusione così ampia di etnie, di lingue e di culture quale quella che avvolge l’intero pianeta e da cui noi stessi deriviamo.

L’approccio teorico
Chi è il migrante? Quali sono le caratteristiche che lo possono definire tale? Diversi autori hanno elaborato definizioni ma, in questa sede, si ritiene utile ricordare quella proposta dalle Nazioni Unite: «Una persona che si è spostata in un Paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel Paese da più di un anno» (Kofman et al., 2000).
La definizione qui adottata rende evidenti tre elementi caratterizzanti il migrante:

1) lo spostamento da un Paese a un altro,
2) la differenza tra i due Paesi, nel senso che ci si sposta in un Paese diverso da quello in cui si vive abitualmente,
3) una permanenza nel nuovo Paese della durata minima di un anno.

La definizione, pur molto utile alla nostra trattazione, ha comunque dei limiti, in quanto considera solo le migrazioni internazionali (cioè tra diversi Stati) e non ricorda le migrazioni interne, quelli spostamenti, cioè, effettuati all’interno dello stesso Paese (per l’Italia, a esempio, tra sud e nord, o tra montagna e città, o tra piccole città e grandi città e viceversa).

Un altro limite riguarda la durata dello spostamento, perché il tempo di un anno, pur se capace di dar ragione di moltissime emigrazioni, finisce per non considerare tutti quegli spostamenti brevi, spesso su base stagionale, che hanno interessato (e continuano ancora a interessare anche se con minore intensità) il mondo rurale. Rimane aperta, inoltre, la questione giuridica dei figli degli immigrati i quali, pur vivendo abitualmente nel Paese in cui nascono, essendo figli d’immigrati, molto spesso non acquistano la cittadinanza del Paese di nascita e residenza (ius soli), ma continuano a essere considerati immigrati (ius sanguinis).
Il migrante è ha un suo bagaglio personale e emozionale, un suo capitale umano, una sua rete di relazioni, che si sposta nello spazio, mettendo in atto un processo che lega quindi luoghi diversi (il luogo di partenza e di arrivo ma anche i luoghi attraversati) e sistemi sociali diversi (la cultura del Paese di partenza e di quello di arrivo).
Le migrazioni, quindi, sono dei processi molto complessi che coinvolgono diversi attori, in diversi luoghi, per diverso tempo.
Le motivazioni alla base di una partenza possono essere molteplici. Per lungo tempo si è ritenuto che il motore principale delle migrazioni fosse la spinta economica, nel senso che singoli individui o famiglie lasciavano i rispettivi contesti, poveri di offerte lavorative, per recarsi in nuove destinazioni in grado di assicurare lavoro e denaro. La causa principale delle migrazioni internazionali vedeva quindi il ruolo fondamentale di cause strutturali operanti a livello mondiale.
Il mondo veniva macroscopicamente diviso in due: da una parte le aree di partenza, aree povere, in cui il sistema economico non era in grado di rispondere alla domanda della manodopera o, se vi rispondeva, non era in grado di offrire alte remunerazioni, e dall’altra le aree ricche, in cui il mercato del lavoro poteva assorbire le nuove richieste offrendo adeguati compensi. A livello teorico questa visione dicotomica del mondo ha trovato una sua collocazione nella teoria push and pull: a fattori di spinta rispondono fattori di attrazione. Nelle diverse epoche storiche si ritiene che i due motivi abbiano giocato ruoli diversi: durante la fase dello sviluppo industriale europeo, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, così come nella fase del benessere seguito alla fine della seconda guerra mondiale, si reputa che prevalessero i fattori di attrazione da parte dei sistemi economici trainanti, mentre attualmente, si giudicano preponderanti i fattori di spinta. I fattori di spinta possono essere rintracciati nella povertà cronica di alcuni Paesi, nelle carestie, in un rapido aumento demografico e nella mancanza di un sistema economico forte, così come nelle catastrofi ambientali o nei cambiamenti climatici (che vedono avanzare i deserti, abbassare la quantità d’acqua dei fiumi e dei laghi necessari all’irrigazione ecc). In estrema sintesi questa visione bipolare mette a confronto due sistemi opposti con una concezione del mondo in cui gli spostamenti rispondono agli squilibri.
L’incremento della popolazione, del resto, sta rendendo molto vulnerabili alcuni Paesi in via di sviluppo, perché la pressione demografica non avanza di pari passi con il sistema economico. Proprio in questi Paesi alla pressione demografica risponde la pressione migratoria, nel senso che migliaia di individui si riversano in altri Paesi, in altri contesti lavorativi, in grado di assorbirli. È, a esempio, quanto sta recentemente accadendo in alcuni Paesi africani, in cui si registra un veloce incremento del numero di abitanti cui risponde una forte migrazione verso i Paesi settentrionali del bacino del Mediterraneo. Ciò non significa che il contesto internazionale sia rigidamente costituito da un sistema idraulico con il quale, attraverso i flussi, si livellano le spinte, ma che alcuni squilibri territoriali vengono acuiti (Bonifazi, 1998).

La teoria push and pull, che continua comunque a avere risonanza, non riesce però a rispondere a alcune critiche che le vengono mosse da più parti: è sì vero che esistono svariati squilibri tra i Paesi, ma perché i migranti non partono in massa soprattutto dai Paesi più poveri del globo e le fasce sociali maggiormente interessate agli spostamenti non sono le più svantaggiate del sistema Paese? In realtà emigrano moltissimi individui anche da Paesi non estremamente poveri, Paesi con un indice di sviluppo umano di valore intermedio nella classificazione internazionale, come emigrano soprattutto individui appartenenti alle classi sociali intermedie (per viaggiare bisogna avere del denaro).

Un altro approccio che fonda i suoi principi sempre sul sistema economico va ricondotto alla teoria dualistica del mercato del lavoro, elaborata da Piore (1979), nella quale si evidenzia come l’immigrazione sia la risposta a una domanda massiccia di manodopera non qualificata da parte dei sistemi economici sviluppati. Anche in questa teoria si affaccia prepotentemente una visione bipolare del sistema economico: da una parte le attività qualificate, stabili, a buona retribuzione, dall’altra le occupazioni non qualificate, a bassa redditività, instabili e fluttuanti. Gli immigrati andrebbero a colmare questo settore del mercato. Anche le recenti analisi di Saskia Sassen rilevano come nelle maggiori metropoli del mondo si stia configurando questo sistema dualistico per il quale alle richieste di una classe indigena a media/alta qualificazione corrisponde una classe di lavoratori scarsamente qualificati, a basso reddito, in genere appartenente alle categorie sociali più svantaggiate (immigrati, donne, appartenenti a alcune etnie), (Sassen, 1997, 2002).

Pur se affascinanti, anche queste teorie macroeconomiche finiscono per dotare di un ruolo primario i sistemi economici (focalizzando in questo caso l’attenzione soprattutto per i fattori di attrazione), dimenticando di prendere in considerazione anche le spinte più soggettive e personali che invece guidano le azioni umane.
Recentemente sono state elaborate nuove teorie che basano grande importanza sulle relazioni sociali che si instaurano tra gli individui e che sono la linfa vitale del processo migratorio.
In tale ottica l’individuo che migra decide di partire, di lasciare il suo contesto, di arrivare in un altro luogo, di svolgere alcune attività lavorative anziché altre, di risiedere più o meno vicino ad amici e connazionali, proprio in funzione dell’interazione con una o più reti di legami sociali e simbolici nelle quali è immerso (a esempio: di tipo familiare, di gruppo etnico, di appartenenza politica, di scelta religiosa, di comunità territoriale, e così via).
Il sociologo americano Douglas Massey, per esempio, ha definito i networks migratori, le reti migratorie (in italiano spesso chiamate, in senso più lineare, catene migratorie), come i «complessi legami interpersonali che collegano migranti, antichi migranti e non-migranti nelle aree di origine e di destinazione, attraverso i vincoli di parentela, amicizia, e comunanza di origine» (Massey et al., 1998, pag. 42).
I legami sociali e simbolici esistenti tra gli individui e i gruppi danno luogo di frequente a significative opportunità e risorse che possono essere considerate come una specifica forma di capitale sociale: «Contatti personali con amici, parenti e compaesani permettono ai migranti di aver accesso a lavori, alloggi e assistenza finanziaria […]. Dal momento che la rete di connessioni interpersonali è estesa ed elaborata, questo capitale sociale è sempre più disponibile per proiettare i migranti fuori dalla loro comunità, riducendo progressivamente i costi finanziari e psichici della migrazione» (Massey et al., 1987, pag. 170).
Le conoscenze fornite da individui già emigrati e residenti nel nuovo Paese di destinazione, le possibilità offerte dalla rete di solidarietà nell’ospitalità iniziale del nuovo migrante, l’aiuto che può essere fornito nella ricerca di un’attività lavorativa, il linguaggio comune spesso diverso da quello «incomprensibile» (almeno all’inizio) del nuovo contesto, si configurano come  una sorta di assicurazione e protezione per i nuovi migranti. E proprio grazie alla presenza di connazionali, con i quali c’è un legame culturale, politico, religioso, numerosi individui finiscono per risiedere in uno stesso quartiere denotando etnicamente lo spazio urbano (si pensi alle Little Italy statunitensi e alle Chinatown).
I migranti non sono quindi soggetti passivi che rispondono soltanto alle logiche dei mercati, sono invece individui che optano per la soluzione migratoria con lo scopo di reagire a un complesso di stimoli e bisogni, endogeni ed esogeni, che difficilmente può essere racchiuso in una singola teoria.

Una classificazione
Per facilitare la comprensione di un fenomeno tanto complesso si fornirà qui una classificazione che, lungi dall’essere omnicomprensiva, riuscirà a delineare i caratteri fondamentali del processo migratorio.
Gli spostamenti si possono così classificare in base alla motivazione, alla durata, alla tipologia, alla destinazione e in base all’entità numerica degli individui coinvolti.

La motivazione
Come si è già evidenziato, alcuni elementi che possono influire sulla decisione di migrare possono essere rintracciati nelle motivazioni economiche. Ma se è vero che milioni di persone si sono spostate in passato e affrontano ancora oggi le difficoltà legate a uno spostamento per un problema di denaro, è anche vero che oggi si registrano spostamenti anche per rispondere a esigenze lavorative non direttamente legate al puro aspetto pecuniario.
Giovani in possesso di elevati titoli di studio, testato il mercato in cui sono inseriti, optano per altri lidi, magari in grado di riconoscere in un periodo di tempo le qualificazioni raggiunte e di assicurare una stabilità in altri Paesi non raggiungibile. I cosiddetti «cervelli in fuga», spesso donne, dopo essersi formati nelle migliori scuole lasciano il loro Paese e si recano all’estero, chi per pochi anni, chi per una scelta definitiva, nell’ottica di un mondo sempre più interconnesso e percorso da legami che ne acuiscono l’accessibilità.
Ma la motivazione può non essere direttamente dipendente da un contesto economico e essere invece rintracciata, per esempio, in una precisa scelta politica che porta al rifiuto di un contesto e quindi alla partenza. Conseguente, ma non univocamente connesso, è il problema dei rifugiati e dei richiedenti asilo i quali, spesso proprio per motivi politici, sono costretti a lasciare la loro terra per luoghi più sicuri.
Anche l’ambiente ha un suo ruolo nel contesto internazionale delle migrazioni: chi si lascia alle spalle luoghi freddi e umidi per scaldarsi le ossa in un ambiente più secco durante gli anni della pensione, chi sceglie luoghi esotici per avviare attività turistiche, chi fugge dai deserti che avanzano o dalle sponde sempre più ampie di laghi che si prosciugano.
Possiamo dimenticare le motivazioni legate al cuore? Quelle che hanno a lungo spiegato molte delle migrazioni femminili e che, invece, solo in parte danno ragione degli spostamenti di molte donne? Certo, anche oggi molte coppie miste affrontano oceani e continenti ma sono soprattutto i ricongiungimenti familiari, la riunione cioè in un Paese diverso dall’abituale di un nucleo familiare, a dover essere letti in funzione degli affetti. Ormai molte donne non emigrano più per ricongiungersi ai mariti o ai padri, ma affrontano il processo migratorio per rispondere a esigenze personali molto complesse (carriera, libertà, autonomia, accettazione sociale in caso di divorzio, ricerca attività lavorativa, assunzione del ruolo di breadwinners, di coloro cioè che portano il pane).

La durata
Un secondo tipo di classificazione può essere portata avanti nei confronti della durata dello spostamento. Si è visto come la definizione di migrante avanzata dalle Nazioni Unite ritenga necessario uno spostamento di un periodo minimo di un anno. Quindi la migrazione può avere una durata temporanea (che sia di 1 anno o di 15 anni) o, nel caso in cui si tramuti in una stabilizzazione definitiva diventi una migrazione permanente.
In genere la maggior parte delle migrazioni si svolge lungo un arco di tempo e si conclude con il rientro nel Paese di origine. Infatti, a migrare, sono soprattutto individui appartenenti a fasce d’età legate al mondo del lavoro, nel senso che dopo essere partiti in età giovanile, e spesso, dopo aver trascorso gli anni centrali della vita svolgendo un’attività retribuita nel Paese ospitante, rientrano in età più avanzata. Utile a tale proposito è l’analisi delle piramidi delle età, grafico usato da geografi e demografi, con il quale si rende facilmente visibile la concentrazione di individui immigrati appartenenti alle fasce giovanili e centrali. 
Ciò comporta un generale ringiovanimento da parte delle popolazioni ospitanti (popolazioni spesso con un basso tasso di natalità e alto tasso di invecchiamento come in Italia) e, al contrario, un parziale restringimento del numero di individui delle fasce d’età intermedie nella popolazione del Paese di partenza.

Benché il periodo minimo di un anno considerato come limite minimo delle migrazioni sia in grado di comprendere moltissimi spostamenti, non rende possibile, però, assumere come migrazione anche quegli spostamenti ciclici fortemente interconnessi con i cicli della natura: le migrazioni stagionali e temporanee. Nelle valli alpine, per esempio, durante i mesi invernali si rimaneva nelle abitazioni e gli animali erano ospitati al chiuso delle stalle ma durante i mesi estivi gli uomini partivano per gli alti pascoli con le mandrie. L’alpeggio, nei suoi spostamenti verticali a corto raggio, coinvolgeva gli uomini ma influiva anche sulle donne, nel senso che queste dovevano accudire l’intera famiglia e i campi. Similarmente nell’Italia centro meridionale, così come in molte altre aree montane presenti lungo le coste del bacino del Mediterraneo, gli uomini durante i mesi estivi lasciavano le aree costiere e pianeggianti e si recavano in montagna con le greggi. La transumanza si realizzava su sentieri centenari, i tratturi, sentieri ormai abbandonati quali percorsi per le greggi (oggi vengono trasportate direttamente con i camion) ma, in alcuni casi, recuperati per un turismo rurale in espansione. Dalla Campagna Romana, così come dal Tavoliere delle Puglie, pecore e capre viaggiavano verso gli altipiani abruzzesi alla fine della primavera per affrontare a ritroso il viaggio all’approssimarsi dell’autunno.
In ambito internazionale alcuni contadini italiani, durante i mesi invernali (mesi in cui la terra ha meno bisogno di lavoro) attraversavano l’oceano e andavano a mietere il grano nell’altro emisfero, o a svolgervi le attività agricole proprie dei mesi primaverili e estivi.
I nostri contadini che si recavano in Argentina assomigliavano così a degli uccelli migratori che inseguivano le stagioni e la loro forma di emigrazione venne anche chiamata a rondinella, dall’espressione trabajadores golondrinas, con la quale venivano chiamati gli immigrati stagionali in Argentina, perché il termine «golondrinas» in spagnolo significa rondine (Dagradi, 2006; Devoto, 2002).
Non soltanto gli uomini erano coinvolti nelle migrazioni stagionali, in quanto anche le donne avevano mansioni proprie: le mondine per esempio si recavano annualmente nelle risaie delle province di Novara, Pavia e Vercelli a mondare il riso, così come altre donne lasciavano le loro famiglie per andare a raccogliere le olive nelle diffuse aree collinari e pianeggianti distese lungo la Penisola o a raccogliere uva o pomodori (lavoro oggi svolto in buona parte dagli immigrati stranieri).

La tipologia
Le migrazioni di popolazione possono essere spontanee, forzate o organizzate. Se le prime prevedono l’intervento dei singoli e la loro scelta (anche se non sempre libera perché condizionata da vari elementi che ne orientano i tempi, le destinazioni, le modalità ecc), nelle migrazioni forzate o organizzate subentrano fattori esterni determinanti che a volte possono anche essere non condivisi dagli individui coinvolti ma che sovrastano le singole volontà (Pollice, 2007). Migrazioni organizzate, per esempio, si sono verificate in Italia durante la bonifica della Pianura Pontina, quando migliaia di contadini furono spinti a abbandonare le campagne venete e romagnole per andare a dissodare e coltivare gli appezzamenti liberati dalle acque delle paludi.

Per venire a un processo che sta attualmente coinvolgendo alcuni milioni di individui possiamo ricordare la costruzione della diga delle Tre Gole, nella Cina centrale. Data la necessità idrica di una vasta area, è stato bloccato il corso libero del fiume Yangtze con la realizzazione di una gigantesca diga che ha sommerso 2 città, 116 villaggi e 11 contee. Gli abitanti dei centri sommersi sono così stati forzatamente spostati e sono state rimosse e trasferite anche 1.600 industrie per evitare che fossero sommerse dalle acque. Il progetto della costruzione dello sbarramento era nato nel 1993 e la diga, dopo 13 anni di lavori, è stata inaugurata nel maggio del 2006. La barriera è alta 185 metri e ha creato sul medio corso dello Yangtze il più grande bacino idrico del mondo.
La sua realizzazione ha permesso l’approvvigionamento idrico di un’ampia zona ma ha altresì creato una consistente serie di problematiche sia ambientali che sociali. Nel corso del 2008 alcuni esperti ambientali hanno ammesso che il progetto della diga delle Tre Gole ha causato danni alla zona prospiciente il lago ma anche all’area circostante: sono state registrate, per esempio, frequenti alluvioni e un forte tasso di inquinamento, e hanno avvertito che se non saranno prese serie contromisure il rischio potrà essere quello di una catastrofe ambientale. Come affermato dalle stesse autorità cinesi il terreno sotto la diga è collassato già in 91 punti e in totale 36 km di terra sono già franati.
Del resto l’area stava già soffrendo per il sovrappopolamento e l’arretratezza dello sviluppo industriale quindi, vista anche la fragilità ambientale dell’ecosistema, si reputa impossibile un’urbanizzazione di larga scala o un fenomeno di sovrappopolazione diffusa nell’area del bacino idrico delle Tre Gole. Secondo i calcoli della municipalità di Chongqing, quattro milioni di persone che attualmente abitano nelle zone a nord-est e sud-ovest della popolosa città della Cina, una metropoli che conta 27,9 milioni di abitanti, verranno incoraggiati a trasferirsi nella periferia della città a circa un’ora di autobus dal centro urbano per evitare almeno alcuni problemi ambientali che possono derivare da un carico demografico troppo concentrato e troppo elevato.

L’entità
Come già emerso, intimamente connessa con la tipologia è l’entità numerica degli individui coinvolti negli spostamenti, perché si può trattare di un singolo, di un nucleo famigliare o di popoli interi: in quest’ultimo caso l’emigrazione si definisce di massa. Incrociando quindi tipologia e entità è possibile anche ripercorrere alcuni momenti salienti della storia dell’intera umanità perché proprio dallo spostamento di interi popoli, o di gruppi più o meno omogenei, si devono ascrivere gli incroci, i mescolamenti, le contaminazioni sia etniche che linguistiche, sociali e culturali, che hanno interessato i continenti.
Per esempio in epoca classica i Greci colonizzarono molti Paesi dell’Asia minore e la Magna Grecia, i Romani diffusero in tutto l’Impero la lingua e le istituzioni di Roma, così come, in tempi successivi, i Germani si sparsero su molte terre europee, o ancora gli Arabi, di cui troviamo ancora molte tracce nei nostri Paesi, e i Turchi e i Barbari e tantissimi altri popoli che, spinti da motivazioni espansionistiche, conquistarono e sottomisero Paesi e popoli a noi raccontati dalla storia.
Come esemplificazione di migrazione forzata, invece, si ricorda spesso la diaspora ebraica, per la quale interi gruppi di ebrei sono stati espulsi dai Paesi di residenza e si sono concentrati in Israele, oppure il caso degli Armeni, abitanti nell’Anatolia e nella Cilicia, che in aperto contrasto con i turchi, furono deportati verso i deserti della Mesopotamia durante la prima guerra mondiale.
Successivamente molti lasciarono la loro terra per rifugiarsi nella Repubblica di Armenia o emigrarono in massa verso gli Stati Uniti, in aree del Medio Oriente o in Europa occidentale. Oppure, ancora il caso dei Curdi, popolazione di circa 20.000 individui concentrati in un’area divisa tra gli Stati di Turchia, Iran, Iraq e Siria, sottoposti a deportazioni e genocidi. Ma non si possono dimenticare le deportazioni più antiche che coinvolsero migliaia di schiavi, che prelevati con la forza dal continente africano venivano stipati nelle navi e trasferiti nelle piantagioni di cotone degli Stati Uniti o nelle piantagioni di canna da zucchero o di caffè delle regioni caraibiche, a Cuba, a Haiti o in Brasile.
Si stima che a partire dal XVI secolo ben 21 milioni di schiavi siano stati deportati (benché di questi solo circa la metà riuscì a sopravvivere alla traversata). Il golfo di Guinea venne ribattezzato «golfo degli schiavi»: qui gli schiavi provenienti dalle aree interne del continente africano venivano cibati, curati, lasciati riposare, ripuliti e addirittura unti con olio di palma per ben figurare agli occhi dei mercanti. La «merce umana» veniva esposta al mercato degli schiavi, dove i compratori sceglievano i pezzi migliori con vere e proprie aste.
Gli spostamenti coatti nella storia dell’umanità sono moltissimi, si pensi soltanto ai problemi che si sono creati, e si creano ancora, ogni volta che si verificano degli spostamenti di confine a seguito delle guerre. Interi gruppi sono stati costretti a lasciare le loro abitazioni e a cercare nuova ospitalità: se la prima guerra mondiale causò circa 6 milioni di profughi, la seconda guerra mondiale coinvolse e costrinse circa 60 milioni di individui a spostarsi contro il proprio volere. In Italia, per esempio, dopo la sconfitta circa 350.000 profughi partirono dall’Istria e dalla Dalmazia, prima terre italiane poi terre cedute alla Jugoslavia.
Ma le guerre continuano a mietere vittime e a contrapporre etnie e famiglie costringendo continuamente alla fuga, all’esodo temporaneo, o forse definitivo. Si ricorda qui, tra le tante che recentemente hanno insanguinato le terre africane (di cui si parla spesso troppo poco), la guerra del Ruanda tra i due gruppi etnici Hutu e Tutsi, i quali hanno visto morire un milione di individui e ne hanno visti partire circa due milioni per i Paesi vicini. Così l’Uganda è divenuta un Paese rifugio e ha osservato la sua popolazione aumentare velocemente, con tutti i problemi logistici che sorgono nel dovere dare ospitalità e assistenza ai nuovi arrivati. 

La destinazione
Come già messo in evidenza nelle righe precedenti, è facile comprendere come esistano emigrazioni a corto raggio o a lungo raggio, orizzontali e verticali, interne o esterne. Se queste ultime possono coinvolgere individui che si spostano tra Stati, appartenenti allo stesso continente e quindi dette internazionali, o individui che si spostano tra Stati di diversi continenti (intercontinentali), quelle interne possono interessare spostamenti dalle aree montane verso le aree pianeggianti, dalle aree interne verso le coste, da sud verso nord nel caso italiano, dalla campagna verso la grande città, dalla grande città alle città medie, dalle città medie a altre città medie.
Gli spostamenti interni, in sostanza, sono così variegati che possono interessare aree di partenza e aree di destinazione così diverse tra loro da connotare possibili disparati tipi di inserimento e di attività lavorativa da parte dei nuovi immigrati. La destinazione viene scelta dagli individui in base a alcuni fattori (detti territoriali) che possono rendere preferibile un luogo anziché un altro e che sono intimamente connessi, comunque, a altri fattori personali e relazionali. I differenziali migratori territoriali si riferiscono, innanzitutto, alla direzione che assume lo spostamento.
La partenza da un luogo può portare a destinazione con un viaggio diretto o può prevedere diverse tappe, come può per esempio cambiare nello stesso corso dello spostamento nel caso del sopraggiungere di nuove opportunità (non previste in principio). Anche la distanza è importante, al punto che fino a qualche decennio addietro, prima che i vettori moderni rendessero gli spostamenti così veloci, si osservava una proporzione diretta tra il numero di migranti e la distanza tra i luoghi nel senso che più ci si allontanava geograficamente dalla sorgente e minore era il numero di migranti. Si preferiva privilegiare le aree limitrofe più che zone così lontane da richiedere troppe giornate di spostamento (la teoria della distance decay). Ma i profondi mutamenti intervenuti nel sistema internazionale dei trasporti ha portato alla ribalta (e ne ha ampliato la portata concettuale) il fattore dell’accessibilità. Se un viaggio aereo low cost connette due aree anche geograficamente distanti con una spesa economica contenuta e con un tempo inferiore a quello magari necessario per raggiungere un’altra località in assoluto più vicino ma non dotata di infrastrutture (e quindi distante in termini temporali e economici) allora la teoria della distanza non ha più il senso quasi universale assunto in passato e i migranti, oggi, si distribuiscono anche in luoghi lontani dalle loro abitazioni iniziali.
Anche le caratteristiche del clima hanno una qualche valenza che può spingere alcuni individui a preferire una destinazione anziché un’altra. Se alcuni Stati meridionali degli USA, la Florida e l’Arizona, per esempio, registrano attualmente un forte incremento demografico, il trend va letto alla luce della constatazione che gran parte di questa nuova popolazione è una popolazione anziana, ritirata dal lavoro, che cerca un clima «amichevole» per le ossa consumate.
Un altro fattore importante va rintracciato nel contesto politico del Paese di destinazione perché profughi e richiedenti asilo politico saranno condizionati dalle differenze territoriali presenti.
Nel contesto internazionale attuale numerosi spostamenti coinvolgono individui a elevato livello d’istruzione alla ricerca di nuovi contesti in grado di rispondere ai loro bisogni: economici, personali, culturali, politici ecc In questo caso, soprattutto, il fattore del milieu risulta degno di attenzione nella scelta della destinazione. Con questo termine francese s’intende «l’insieme delle condizioni naturali e socio-culturali che si sono stratificate in un luogo nel corso del tempo e che rappresentano il patrimonio comune della collettività locale e la base territoriale della sua identità».

Altri fattori che possono influenzare le migrazioni sono i cosiddetti differenziali migratori personali (Gentileschi, 1991), fattori individuali come l’età, il sesso, lo stato civile e altri che entrano in gioco in ogni fase del processo migratorio (nella decisione di emigrare, nella scelta della destinazione, dell’attività lavorativa, di un eventuale rientro ecc). È stata registrata, per esempio, una propensione all’emigrazione in alcune fasce d’età e non in altre. Quando si è giovani, con una età tra i 20 e i 30 anni, in genere si è più «liberi» di emigrare in quanto ci sono ancora pochi legami sociali stabili, probabilmente la carriera non è stata ancora avviata, non si possiedono beni materiali che legano all’origine, e questa flessibilità rende più agevole un eventuale distacco.
Inoltre, generalmente, si emigra per svolgere un’attività lavorativa e percepire denaro, quindi si deve essere in un’età non troppo giovane (a esempio in alcuni Paesi esistono normative che vietano il lavoro agli individui minori di 14 anni) oppure in età troppo avanzata. L’analisi delle piramidi delle età delle comunità migranti mostra, infatti, una sovra-rappresentazione degli individui proprio nelle fasce comprese tra 20 e 45 anni d’età. Legati all’età sono, ovviamente, anche lo stato civile e il sesso. Nel caso di una coppia la decisione di emigrare, anche nella circostanza in cui interessi un solo componente, influenzerà ovviamente due individui e, qualora si fosse in presenza di figli, coinvolgerà anche questi nel progetto e nel processo.
Pure nel caso dello stato civile si è quindi osservata una propensione alla migrazione di individui single. Anche il sesso è determinante all’interno di un percorso migratorio. Nell’immaginario collettivo il migrante è un uomo ma scopriremo come, nella realtà dei fatti, anche le donne hanno non soltanto preso parte attiva nel processo migratorio ma hanno anche assunto ruoli primari e il loro coinvolgimento a livello mondiale sta registrando un repentino incremento.

Le migrazioni femminili   
A livello mondiale le donne rappresentano ormai circa il 50% di tutti i migranti (UNFPA, 2006); le donne italiane emigrate all’estero sono oggi il 47% di tutti gli italiani residenti fuori dei nostri confini. Castles e Miller (1993), osservando le trasformazioni dei flussi migratori su scala globale, hanno affermato che la femminilizzazione dei flussi è una delle principali tendenze della «nuova era delle migrazioni». Non soltanto nel corso del tempo è aumentato il numero assoluto delle donne migranti, ma ne sono cambiate anche le caratteristiche di flusso e di struttura così come le strategie (sia nel Paese di partenza che di destinazione).
In tempi passati erano molte le donne che si ricongiungevano ai mariti immigrati per primi; di recente, anche se molte donne continuano a raggiungere i familiari in tempi successivi, si osservano flussi consistenti di donne «sole» che arrivano per prime nei Paesi in cui troveranno lavoro. I comportamenti maschili e femminili in tema migratorio cambiano comunque sensibilmente in relazione al Paese di provenienza, alle condizioni economiche e sociali sia strutturali che contingenti dei diversi contesti che fanno maturare la scelta dell’emigrazione (Cristaldi, 2006; Morokvasic, 1984).

Alcune comunità straniere residenti in Italia sono oggi a forte differenziazione di genere nel senso che gruppi provenienti da Paesi del Sud America, o dalle Filippine, o dall’Europa dell’Est sono a forte componente femminile, mentre gruppi in arrivo da Paesi africani o dall’Asia meridionale sono generalmente a forte componente maschile. Le situazioni economiche, sociali, politiche, culturali e religiose dei Paesi di partenza incidono moltissimo sul contingente migratorio in uscita, sia per quanto riguarda la componente di genere, che per le aree di destinazione, i tempi di distacco, le modalità di partenza e di viaggio, le possibilità di inserimento nelle società ospitanti. 
A partire dagli anni `70 nelle maggiori città italiane, in special modo a Roma e Milano, un numero sempre crescente di donne immigrate è stato inserito nel tessuto produttivo urbano per rispondere alle nuove esigenze familiari conseguenti all’entrata della donna nel mondo del lavoro, alla carenza di un sistema efficiente di welfare e all’aumento del benessere di alcuni ceti sociali. Così centinaia di donne, sole, sono giunte nella Penisola inizialmente dal Corno d’Africa e dalle isole di Capo Verde, alle quali, successivamente, si sono aggregate donne provenienti dalle Filippine (Cristaldi-Darden, 2006). Queste donne andavano quindi a riempire un vuoto nelle case italiane, nelle famiglie, un vuoto occupazionale ma in alcuni casi anche relazionale. Avere la colf filippina (dove per filippina si intendeva in modo più ampio anche una donna che proveniva da altri Paesi), rappresentava per il ceto borghese uno status simbolo di benessere e per le donne immigrate la possibilità di entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro retribuito. Vivendo all’interno delle famiglie italiane le donne non potevano certo farsi raggiungere dai mariti e dai figli e affrontavano quindi il periodo della migrazione come una fase di distacco a volte lacerante.
Le immigrate, spesso madri, hanno lasciato i loro figli nelle terre d’origine per farli accudire da parenti della famiglia allargata e per venire a accudire i figli delle donne italiane. Tale spostamento, non solo economico ma anche affettivo, in alcuni casi, ha fatto parlare di «madri transnazionali», madri che condividono la cura e gli affetti verso bambini (ma il discorso può essere applicato anche nel caso della cura degli anziani) divisi tra diverse nazioni.
In alcune circostanze la partenza non ha rappresentato soltanto un distacco dilaniante ma, all’opposto, anche l’occasione per la conquista di una maggiore indipendenza, di autonomia, o di un congruo inserimento professionale (Todisco et al., 2004).
Addirittura, dal momento che in alcuni Paesi la condizione civile di separata o vedova rappresenta un ostacolo sociale alla vita collettiva, alcune donne in tale condizione hanno scelto la via dell’emigrazione come via di «superamento» di tale vincolo. Lo studio dei dati relativi alla composizione per stato civile delle donne immigrate a Roma, a conferma di quanto affermato, dimostra un’alta percentuale di donne separate, divorziate e vedove, percentuale molto a di sopra, per esempio, della media delle donne italiane (Cristaldi, 2006). E se in alcuni Paesi stranieri il divorzio non è legale la partenza può rappresentare a sua volta la possibilità per la donna di vivere una vita socialmente più piena e economicamente più indipendente.
Le donne guadagnano soldi e li inviano spesso alle famiglie, anche in senso allargato, per cui a volte diventano il breadwinner dell’intera famiglia, nel senso che con le loro rimesse la famiglia d’origine riesce a affrontare molte delle avversità della vita e in molti casi riesce anche a salire alcuni gradini sociali. La donna acquisisce quindi un ruolo primario anche nella lontananza; lontananza, anzi, che la rende attore primario del processo migratorio. E del processo migratorio l’entrare in contatto con altre culture, con altri sistemi sociali, fa parte integrante, al punto che al rientro nelle terre d’origine alcune donne portano con loro un bagaglio esperienziale e culturale che può rappresentare sia un veicolo di cambiamento che un elemento di disturbo.
Dipende molto dall’apertura mentale della società in cui si rientra e dalla disponibilità degli individui di rimettere in gioco i codici e i comportamenti alla luce di questi nuovi stimoli derivanti dalle migrazioni.

Le politiche migratorie
Oggi quasi il 50% degli immigrati presenti in Italia proviene dal continente europeo (con una forte incidenza dei Paesi dell’Est), circa il 23% proviene dall’Africa, poco meno del 20% giunge dai Paesi asiatici e il 10% dal continente americano. Ma l’apertura, la chiusura o la permeabilità delle frontiere, associata alle politiche migratorie portate avanti dagli Stati può rappresentare un ostacolo o quantomeno un vincolo, per i flussi migratori, per la loro composizione strutturale e per la provenienza geografica. Essenziali al discorso migratorio, infatti, sono le politiche portate avanti nel tempo dai singoli Paesi e dagli organismi sovranazionali (leggi Unione Europea), che possono determinare incrementi o decrementi nei flussi in entrata e in uscita, la sostituzione dei gruppi nei territori e le diverse forme di accoglienza/integrazione.
In effetti esistono due gruppi di politiche per l’immigrazione: il primo concerne le politiche rivolte alla regolazione dei flussi migratori e al controllo dell’inclusione sui territori degli stranieri, mentre il secondo comprende tutte le norme indirizzate verso l’accoglienza o l’integrazione dei singoli nella società ospitante (problema molto complesso perché non tutti i governi vogliono promuovere l’inclusione sociale degli immigrati).
Le migrazioni in Europa, seguendo quanto suggerito da Hammar (1990), il quale focalizza l’attenzione sul ruolo delle politiche migratorie, possono essere ricondotte a quattro periodi:

1) a partire dal 1830, quando le prime grandi migrazioni transoceaniche erano libere e prive di vincoli, nel senso che non erano necessari documenti, e durante le quali migliaia di europei solcarono i mari per raggiungere altri continenti;
2) il periodo delle due guerre mondiali (1914/1945), quando i movimenti migratori sono stati sottoposti a regole e restrizioni in seguito sia a motivazioni belliche sia a motivazioni economiche legate alle domande protezionistiche delle forze di lavoro europee generate dalla crisi economica;
3) il periodo successivo alla conclusione degli eventi bellici e l’epoca della ricostruzione, quando il benessere economico ha spinto a una regolazione dei flussi in senso relativamente liberale;
4) per giungere dagli anni ‘70 a oggi, periodo in cui si elaborano più o meno severi criteri di regolamentazione dell’immigrazione (per giungere alla nota definizione di fortezza Europa).

In risposta alle politiche adottate il numero dei migranti ha subìto più o meno rapide oscillazioni. Nonostante il ricorso all’immigrazione sia considerata spesso la risposta a un problema economico, per cui le società occidentali richiedono manodopera a bassa qualificazione, il numero di migranti regolari è anche frutto proprio delle politiche in quanto in alcuni Paesi si ricorre a politiche d’emergenza o politiche di più lunga gettata temporale e di struttura. Sanatorie periodiche, provvedimenti straordinari, possono rapidamente trasformare un irregolare e un clandestino in un regolare. Del resto gli stessi termini immigrato regolare o irregolare non sono fissi nel tempo, non sono caratteristiche intrinseche degli individui ma cambiano anche a seguito del momento politico.
Va comunque ricordato che la maggior parte degli immigrati non è in condizione di clandestinità, nel senso che, considerando clandestino colui il quale entra senza alcun documento nello Stato, nonostante quanto veicolato dai mass media che mostrano spesso barconi in arrivo sotto carichi di diversa umanità, il numero di clandestini presenti all’interno delle nostre frontiere è contenuto. Gli immigrati irregolari sono i cosiddetti overstayers, coloro i quali, entrati con un regolare documento di ingresso (per l’Italia, a esempio, si parla di visto turistico), alla scadenza del documento di ingresso rimangono sul suolo straniero trasformandosi immediatamente in irregolari, perdendo una serie di diritti e finendo per vivere nell’ombra.
Del resto nei diversi periodi storici, e nei diversi Paesi, si è assistito al susseguirsi di politiche migratorie a diverso contenuto integrativo. Pur nella differenziazione di ogni specifico intervento si potrebbero individuare tre principali modelli di inclusione degli individui migranti nelle società ospiti: temporaneo, assimilativo, pluralista.

Il primo modello, quello dell’immigrazione temporanea, può essere facilmente rintracciabile nelle esperienze europee del dopoguerra, quando l’immigrazione veniva considerata un fenomeno temporaneo che coinvolgeva individui stranieri che, finito il periodo di lavoro sul suolo straniero, avrebbero fatto ritorno alla loro dimora.
In tale modello l’immigrato veniva considerato un lavoratore, utile alla società, ma che non avrebbe dovuto necessariamente essere raggiunto dalla famiglia, e non avrebbe potuto accedere ad alcuna forma di integrazione (per esempio l’acquisizione della cittadinanza).
Il secondo modello rintracciabile viene ascritto al modello assimilativo, per il quale le politiche tendono verso una rapida omologazione (culturale e politica) dei nuovi immigrati. In questo caso si parla di assimilazione degli immigrati, considerati quasi privi di radici culturali rispetto alla società ospitante.
Il terzo modello è quello pluralista, in cui le differenze possono venire tollerate o valorizzate attraverso la creazione di politiche multiculturali. Il ruolo delle politiche nel processo migratorio ha comunque molteplici sfaccettature perché può coinvolgere il diritto di cittadinanza, di rappresentanza, alla casa, all’istruzione e ad altri diritti fondamentali della sfera personale e sociale. Ma la presenza sul territorio di comunità straniere, in cui l’altro viene considerato diverso e portatore di una cultura a volte non comprensibile, che può risvegliare sentimenti di paura, in alcune occasioni suscita atti di xenofobia o di intolleranza sociale. Se in una città si perseguono, per esempio, politiche che tendono a segregare gli immigrati, differenziando le loro abitazioni dal resto del tessuto urbano, correndo il rischio di dar vita a propri ghetti, si finisce per concentrare le tensioni all’interno di singoli spazi (si pensi alle rivolte delle periferie parigine dei primi anni 2000).

Il problema della segregazione residenziale (Cristaldi, 2002, 2004) si affianca così al problema della segmentazione del lavoro, per il quale agli immigrati sono aperte le porte soltanto di alcuni lavori e sono invece chiusi i cancelli di altre attività. Poco importa che le qualifiche di cui gli immigrati sono in possesso descrivano un individuo preparato e qualificato, perché nel non riconoscimento dei titoli di studio e nelle necessità strutturali di Paesi entrati a pieno titolo nel processo di globalizzazione, gli individui immigrati, considerati altri da noi, rappresentano spesso una mera risorsa economica che fa fatica a raggiungere anche semplici diritti umani.
Gli immigrati, per rispondere anche alle difficoltà dei contesti di nuovo inserimento, si abbracciano tra loro all’interno di spazi territoriali a volte ristretti e a volte chiaramente percepibili nel tessuto connettivo del Paese, dando vita a differenti modelli territoriali.

I modelli territoriali dell’immigrazione in Italia
Anche se l’Italia ha sempre attratto immigrati per il suo ruolo politico, religioso e culturale, soltanto negli ultimi 30 anni si è registrata una presenza più consistente di immigrati, al punto in cui è stato possibile rintracciare i comportamenti residenziali degli individui e dei gruppi sia in risposta alla conformazione strutturale del Paese, sia in risposta alle domande del mercato del lavoro sia, non ultimo per importanza, per il ruolo giocato dalle reti migratorie. In Italia, attualmente, si registra una nuova diffusione territoriale della presenza di immigrati anche se con una concentrazione maggiore nelle aree settentrionali e una rarefazione nelle regioni meridionali (SGI, 2003).
È nei distretti industriali del nord che si distribuiscono gli immigrati, nelle piccole e medie imprese più che non nelle catene di montaggio delle maggiori fabbriche, per svolgere mansioni operative per un periodo di medio-breve termine, così come sono fortemente presenti nel settore dell’edilizia e nel settore agricolo in cui si concentrano per le operazione di raccolta (centro-sud e Friuli), per le colture specializzate (Liguria e Sicilia sud-orientale) e per il comparto zootecnico (con richieste maggiori nelle regioni alpine e nella Pianura Padana). Un altro settore economico a forte concentrazione di manodopera immigrata maschile è connessa con il settore della pesca (rintracciabile nell’Alto e Medio Adriatico e nel Canale di Sicilia).
Recentemente si osserva anche un altro fenomeno all’interno del mercato del lavoro dell’immigrazione, un fenomeno che va trasformando i semplici fornitori di manodopera dequalificata in imprenditori. Nascono ogni giorno nuove imprese, molte a carattere prettamente etnico, condotte da individui immigrati. Le Camere di Commercio locali registrano un numero crescente di imprese con titolari nati all’estero, anche se la maggior parte di queste piccole imprese offre una «imprenditorialità povera che risponde alle esigenze di servizi personalizzati e ad alta intensità di lavoro» (SGI, 2003, pag. 50). Alcuni gruppi nazionali spiccano tra gli altri nell’occupare questi nuovi segmenti occupazionali: i cinesi per quanto concerne il commercio al dettaglio e all’ingrosso (Cristaldi, Lucchini, 2007), gli egiziani per quanto riguarda la ristorazione. L’accesso al lavoro autonomo, comunque, può rappresentare sia la testimonianza di un processo di ascesa sociale (con un passaggio dal lavoro dipendente all’indipendenza) sia, al contrario, la testimonianza della difficoltà incontrate, magari soprattutto da parte di alcuni gruppi, nell’inserimento nel tessuto produttivo (sia per motivi di lingua, per esempio, che per motivi legati alle politiche, nel senso che in alcuni Paesi l’imprenditoria straniera gode di alcuni vantaggi o viene, comunque, ben accettata).
In Italia, ad esempio, la legge 40/1998 ha liberalizzato il commercio e ha rappresentato quindi una boa di riferimento nel contesto imprenditoriale italiano e straniero. 
Altri luoghi dell’immigrazione sono evidenti nei maggiori centri urbani, proprio dove si trovano le maggiori opportunità di lavoro ma dove si concentrano anche le reti di solidarietà. Così alcuni quartieri vengono occupati dagli immigrati e ne vengono trasformati, altri accolgono soltanto pochi individui che non narrano le loro geografie e non diventano visibili, altri quartieri, invece, ospitano nelle loro abitazioni, al buio degli occhi italiani, migliaia di collaboratori domestici e di badanti che disegnano la città soltanto nei giorni di festa, giorni in cui si ritrovano con i connazionali e, non avendo spazi privati in cui incontrarsi, occupano gli spazi pubblici e li caratterizzano con i loro corpi e i loro linguaggi. Roma, Milano, ma anche Torino, Genova e Bologna rappresentano i luoghi privilegiati della residenza straniera.
Ma oggi la concentrazione che caratterizzava queste grandi città si va dilatando nello spazio per cui si assiste a una diffusione della presenza immigrata anche al di fuori delle maggiori aree urbane, nelle città medie e nei Comuni delle prime corone delle più grandi città. Si assiste quindi a un processo di territorializzazione che come un’onda parte dai capoluoghi per investire le altre aree residenziali limitrofe. Del resto, questi processi residenziali vanno anche letti in accordo agli spostamenti che si sono verificati all’interno della distribuzione della popolazione nazionale e al contempo, anche in risposta al decentramento produttivo che si è andato registrando negli ultimi decenni.

Le migrazioni interne
Nel corso della storia del nostro Paese è possibile rintracciare le linee principali che hanno caratterizzato gli spostamenti interni della popolazione italiana dell’ultimo secolo e che costituiscono le radici dell’attuale assetto demografico del Paese, all’interno del quale si inseriscono anche gli immigrati stranieri.
Grossi spostamenti di popolazione si sono avuti a partire dalle aree montane, spesso isolate e private dalle opportunità economiche loro proprie in conseguenza della nascita delle industrie e del forte richiamo delle aree pianeggianti e urbane, per cui già a partire dalla fine del XIX secolo le nostre Alpi hanno visto assottigliare il contingente di residenti. Le montagne si sono spopolate sempre più, coinvolgendo nello spopolamento anche gli Appennini e le altre aree svantaggiate della Penisola.
Le forze giovani hanno lasciato l’agricoltura e la pastorizia montana per trasformarsi in operai e nuovi inurbati. Nei centri montani sono così rimasti gli anziani, i testimoni delle tradizioni, in un percorso di abbandono delle terre che ha portato anche grandi problemi di natura ambientale. E le pianure e le coste, nel contempo, hanno visto rapidamente aumentare il carico umano, carico sempre più denso, affastellato e caratterizzato da movimenti pendolari sempre più intensi. Perché le città sono cresciute in fretta, i centri si sono allargati sui territori contermini, magari inglobando centri preesistenti o edificando nuove periferie che andavano nel tempo perdendo i connotati di spazio urbano per perdersi nell’omogeneizzazione di spazi agli orli dell’urbano, privi di servizi ma fitte sedi residenziali.
Così le persone si sono spostate al di fuori delle più grandi città, verso i centri limitrofi magari meno assediati dai problemi delle grandi densità e quindi verso spazi più accessibili e più vivibili. Si è così parlato di contro urbanizzazione, o meglio sarebbe dire sub-urbanizzazione (Van den Berg, 1982) per la quale prima i contorni urbani si sono espansi, le periferie hanno accolto nuovi individui, poi i centri urbani sono stati abbandonati dalla popolazione italiana (disurbanizzazione) e gli edifici industriali centrali sono stati decentrati in spazi meno costosi. Solo le persone a basso reddito sono rimaste abbarbicate alle loro proprietà sempre più fatiscenti. E hanno cominciato sempre più a condividere lo spazio centrale con i nuovi poveri, con gli immigrati, i quali sono andati a occupare abusivamente o a caro prezzo (perché nonostante la fatiscenza agli immigrati si vende e si affitta spesso a prezzi superiori alla media di mercato).

Nel tempo gli edifici si sono degradati e nei centri urbani si sono sviluppati dei quartieri etnici, fortemente connotati dalla presenza residenziale ma anche produttiva di popolazione straniera a basso reddito (Cristaldi, 2004). Lo spazio urbano si è andato differenziando e caratterizzando sulla base strutturale, reddituale e etnica: nei centri più fatiscenti rimangono le persone anziane, i poveri, gli stranieri. Al contempo nelle più grandi città gli stranieri cominciano a spostarsi anche nelle periferie più marginali, più lontane, più degradate, andando a disegnare uno spazio frammentato in cui i nuovi poveri si contrappongono ai nuovi ricchi. Interventi speculativi privati e l’intervento spesso dell’amministrazione pubblica (e qui ritorna il ruolo fondamentale delle politiche nella strutturazione dello spazio), attivano processi di ristrutturazione e di recupero delle aree interne, fatiscenti e degradate, giocando sulla localizzazione centrale e attirando nuova popolazione a reddito medio alto (processo di riurbanizzazione).
Il processo in atto nelle maggiori città italiane, che con anni di ritardo rispetto alle più grandi metropoli mondiali, viene definito gentrification, rappresenta una nuova forma di mobilità per la popolazione: fasce marginali di popolazione (anziani e immigrati), vengono sostituite da altra popolazione a reddito medio alto, in genere professionisti, quindi individui ad alta qualificazione, che ritiene fondamentale ritornare al centro, al centro della città, al centro della cultura che anima la città stessa. E ai poveri e agli immigrati, così come altre categorie sociali, non resta che spostarsi ancora, in un gioco senza fine, per il quale gli spazi vengono bonificati, colonizzati, abitati, usati, in fondo vissuti.