Curcio Medie

Ecco come Ammiano Marcellino, lo storico più importante del IV secolo, nelle sue Storie descrive il popolo degli Unni. Ne emerge chiarissimo l’orrore di fronte a questi uomini, sia per le abitudini guerriere, considerate all’opposto della raffinata civilitas romanorum, sia per l’aspetto, definito addirittura «bestiale». Il suo è il rifiuto di un intero popolo, quello romano, che atterrito e angosciato deve abituarsi a vivere accanto alle genti barbare, non più come dominatore, bensì come popolazione sottomessa.

 

La semente di ogni sventura, l'origine di stragi affatto nuove che il furore di guerra provocò in un sovvertimento generale venuto ad aggiungersi al suo solito ardere, crediamo di poterla individuare in questo.

Le storie e le testimonianze degli antichi appena accennano agli Unni: una gente che, barbara oltre ogni immaginazione, vive al di là della palude Meotide, ai bordi del mar Glaciale. Essi a cui, nel nascere, le guance vengono incise da profondi tagli perché il vigore del pelo, al momento opportuno, si perda in quel corrugamento di cicatrici, invecchiano imberbi, laidamente simili a eunuchi, ma tarchiati, robusti, grossi di collo, con qualcosa che incute timore nella loro struttura innaturale: quasi una sorta d'animali bipedi, oppure quei tronchi che, sgrossati alla meglio, si vedono sulle spallette dei ponti.

A un aspetto che se pur deforme è pur sempre umano, corrispondono abitudini quasi bestiali. Il loro cibo non ha bisogno né di fuoco né di condimento se consiste in radici d'erbe selvatiche e nella carne del primo animale che capiti a tiro, da far frollire un po', tenendola sotto le cosce mentre cavalcano. Mai che si ritrovino nell'interno di qualche edificio; anzi comunemente rifiutano le case come tombe, e questo al punto di non disporre nemmeno di tuguri di canne. Ma vivendo vaghi, in un continuo trasmigrare per selve e montagne, intanto s'abituano fin dalla nascita a sopportare la fame, la sete, le intemperie. In paese straniero, poi, non entrano in un'abitazione se non per necessità assoluta, convinti come sono che, sotto un tetto, non possa esservi sicurezza… Coperti da indumenti di lino o di pelli di quei topi dei boschi cucite insieme, non è che abbiano una veste per quando si trovano in casa e un'altra per quando escono; una volta infilata, questa specie di sudicia tunica deve cadere a brandelli, logora dall'uso, prima che se la tolgano o se la cambino. La testa usano proteggersela con un berretto dagli orli ribattuti, le gambe pelose con pelli di capra. I calzari, ritagliati alla meno peggio, impediscono loro di camminare liberamente: questa la ragione per cui, poco adatti a combattere a piedi, se ne stanno come inchiodati su quei cavalli vigorosi quanto sgraziati, e sulle loro groppe, talvolta cavalcandoli alla donnesca, sbrigano ogni faccenda: di giorno e di notte, dal vendere al comperare, dal mangiare al bere e, allungati sul corto collo della loro bestia, al dormire profondamente, perfino al sognare. Ed è ancora a cavallo che si consultano e deliberano circa gli interessi della comunità, senza nessuno dei cerimoniali che la presenza di un re imporrebbe: le situazioni piuttosto le affrontano limitandosi a seguire la guida dei migliori tra loro.

Nel combattere, talvolta attaccati, danno contro il nemico suddividendosi in cunei e lanciando cupe grida. Come nell'offensiva sono pronti e imprevedibili, così ricuperano disperdendosi a bella posta con altrettanta rapidità, seminando vastamente la strage proprio per quel loro schieramento senza alcun ordine fisso: tattica che, nella sua stessa estrema mobilità, permette loro di attaccare, senza essere visti, bastioni e campi fortificati. Ma egualmente viene da giudicarli tra i più terribili guerrieri della terra per il fatto che, sicuri dei loro colpi da lontano (una pioggia di dardi dall'acuta punta d'osso, anziché di ferro, adattata con tecnica eccezionale) e prodighi della loro vita nei corpo a corpo, sanno inoltre legare gli avversari, nel mentre ne scansano i colpi di spada, dentro una cinghia di cuoio in modo da paralizzarli in ogni movimento. Nessuno di loro lavora la terra o tocca un aratro. Tutti errano senza meta, senza tetto, senza leggi, senza religione di focolare, senza sicurezza di cibo, continuamente fuggitivi su quei carri a due ruote che sono la loro casa, dove la donna mette insieme squallidi vestimenti, s'accoppia con il marito, partorisce e nutre i figli fino alla pubertà. E nessuno, concepito, messo al mondo, allevato in posti uno diverso dall'altro, può rispondere a domandargli di dove sia. Incostanti e perfidi nel patteggiare, alla minima speranza di vantaggio cambiano decisione sempre cedendo ai sussulti della loro collera. Privi di coscienza al pari degli animali, non fanno distinzione tra ciò che è onesto e ciò che non lo è. Parlano poi una lingua capziosa, enigmatica. Non adorano divinità, non credono in niente, ardono solo di un'infinita avidità per l'oro. Sono talmente mutevoli d'umore e suscettibili che, nel corso d'una stessa giornata, rompono con le amicizie senza nessun motivo, oppure le rinnovano senza intermediari.

 

(da Storie di Ammiano Marcellino, XXXI, 2)