Curcio Medie

Saggio di Riccardo Palmieri

Fuori l’autore! Un’introduzione necessaria
Trattare gli ultimi dieci anni di Storia del Cinema significa innanzitutto liberarsi da un interrogativo paradossale: è più «importante» parlare di autori (registi, soggettisti, sceneggiatori, direttori della fotografia…) o di film? Più che di evoluzione dovremmo ragionare in termini di analisi. E in una panoramica significativa che abbraccia la decade 1997-2007, vissuta nel buio delle sale, preferiamo anteporre l’autoralità al genere. Tracciando una sorta di «politique des auteurs», per citare il regista francese François Truffaut, artefice della Nouvelle Vague negli anni Sessanta e innovatore personalissimo. Un’ottica che metta in risalto il film come opera d’arte e la responsabilità primaria del regista nel suo processo realizzativo.

I generi. Un falso problema
Quando si parla di generi cinematografici si introduce una classificazione di comodo che, in realtà, fa comodo soprattutto alle società di distribuzione. Aiuta il pubblico, ma fino a un certo punto. Quanti film raccontano molto più, o meno, di ciò che promettono i trailer? Nasce dall’incidenza del cinema americano? Basti pensare una battuta di Nel corso del tempo di Wim Wenders. Uno dei due protagonisti recita: «Gli americani ci hanno colonizzato il subconscio». Non possiamo negare che uno dei più potenti mezzi impiegati sia stato proprio il cinema: motore di immagini, disinibitore di comportamenti, frullatore di generazioni («un’invenzione del futuro», come la definirono subito i fratelli Lumière).
In un viaggio quasi sempre tortuoso, finanziariamente difficile, culturalmente ambizioso, vogliamo spostarci e «carrellare» distinguendo gli spiriti più liberi, soffermandoci anche sulle cinematografie magari meno famose ma di assoluta autorevolezza. Seguiteci dal 1997 a, più o meno, oggi.

1997

La rivoluzione digitale
Per dirla con il Ridley Scott di Un’ottima annata, il 1997 è un anno invece interlocutorio. Dove sono gli autori, quelli già consacrati? Molti sfornano opere non tutte all’altezza della loro miglior poetica ma si sa, l’ispirazione è un fantasma della libertà e l’avvento delle tecnologie digitali cambia radicalmente il modo, non solo di fare ma di pensare il cinema. Steven Spielberg, sempre oscillante tra epica, denuncia e spettacolo, in quest’anno realizza ben due film, dai contenuti opposti: Amistad, vicenda che scava nella pratica dello schiavismo in un ’700 illusoriamente illuminato, cui contrappone le avveniristiche ri-creazioni dell’era dei dinosauri con Il mondo perduto - Jurassic Park, nel quale si concentra chiaramente sulle magie digitali, tra code squamate, dentoni sguainati e suspence animatronica.

La CGI, la computer grafica, connota il passaggio da un cinema analogico ad una visione digitale, sempre più impiegata a supporto delle storie. Per questo l’evoluzione del cinema vive da un lato il perfezionamento costante delle tecniche di ripresa, montaggio e post-produzione, dall’altro subisce una sorta di regressione da parte di chi non ci sta, di chi sceglie la via più artigianale, pur impiegando tecnologie digitali. Una vera e propria rivoluzione. E una sfida. Che raccoglie, per esempio, il regista Barry Sonnenfeld, il quale dopo averci stupiti con i trucchi de La famiglia Addams sbanca il box office con le avventure di MIB - Men in Black (il secondo capitolo sarà del 2002). Le esilaranti battaglie di Will Smith e Tommy Lee Jones, vestiti come i Blues Brothers ma in realtà poliziotti anti-alieni, sono arrivate ad oggi a incassare qualcosa come 800 milioni di dollari.

Evento totalizzante del 1997, su tutti, è però Titanic, diretto da James Cameron, che nel marzo dell’anno seguente farà incetta di Oscar (undici) per la rocambolesca, disperata love story degli anni Duemila, ma ambientata nel 1912, tra Jack-Leonardo DiCaprio e Rose-Kate Winslet, amanti perduti sul transatlantico più famoso e sfortunato della storia. Il ripescaggio virtuale che dagli abissi riporta in vita il bestione affondato è un miracolo di modellismo e computer grafica. Artigianato e scienza.

Spiriti nomadi
Spostiamoci, in questa nostra panoramica, in territori purtroppo meno frequentati ma altrettanto fertili. Vi incontriamo autori sorprendenti per libertà creativa, profondità di lettura e interpretazione. Dalla scrittrice inglese Virginia Woolf è attratta una regista, Sally Potter, che si lascia ispirare e trasportare nel tempo dalla storia di Orlando, fuga dal ’400 al XX secolo di un essere androgino, che attraversa e vive mutamenti epocali e mutazioni personali di ogni tipo. Si rivela al mondo la sua interprete Tilda Swinton, fino ad allora nota a pochi solo come performer teatrale. Jean-Jacques Annaud conduce invece Brad Pitt tra i monaci di Sette anni in Tibet per esplorare la vita dell’alpinista Heinrich Harrer, che diede un contributo alla formazione occidentale del giovanissimo Dalai Lama. Scelta impegnativa, condivisa curiosamente, sempre nel ’97, da Martin Scorsese, che vola in Nepal e, d’accordo con la comunità buddista, gira Kundun.

Su altri versanti, Joel e Ethan Coen, vessilli d’indipendenza, presentano quel che ancora oggi appare il loro capolavoro: Il grande Lebowski, con un nichilista e volubile Jeff Bridges. Ma il 1997 è anche l’anno di L.A. Confidential, film importante, mix di generi e tributo al noir di James Ellroy (l’omonimo libro da cui è tratto è del ’90), sceneggiato da Brian Helgeland e impregnato di atmosfere hollywoodiane anni ’40. Non si dimenticano, ancora oggi, i poliziotti della Omicidi Kevin Spacey, Guy Pearce, Russell Crowe e la nuvola platinata Kim Basinger che fa il verso a Veronica Lake.

Genio ribelle è Quentin Tarantino, che nel ’97 gira un film apparentemente minore ma, alla luce dei fatti, perfetto. Jackie Brown viaggia nel puro solco della blaxsploitation, quei film di serie B, negli anni ’70, dedicati alle faccende della gente di colore. Chiude la carrellata degli «indies» lo spagnolo più internazionale e talentuoso del circuito, Pedro Almodòvar, con la svolta stilistica di Carne tremula, titolo all’apparenza frivolo, in realtà sostanza incerta e fragile del cuore umano. Il quartetto formato da Javier Bardem (che qui si rivela anche al pubblico non solo spagnolo), Francesca Neri, Liberto Rabal e Angela Molina è elettrico. E il cortocircuito sarà fatale.

Far East, ma non troppo
Sul fronte orientale si sviluppa qualcosa di nuovo. Le frontiere cadono sempre più, almeno sotto il sole dei Paesi colonizzati. Il caso più lampante è il protettorato britannico di Hong Kong, che si libera almeno in parte dal giogo e torna cinese. Il clima di euforia e disorientamento è ben tratteggiato nella storia vissuta dal fotoreporter interpetato da Jeremy Irons in Chinese Box, di Wayne Wang.
Ma da Hong Kong con furore arrivano anche John Woo, che dirige negli Stati Uniti Face/Off - Due facce di un assassino, ovvero John Travolta e Nicolas Cage e Wong Kar-way, che nel ’97 si fa conoscere, prima del celebre In the Mood for Love, con Happy Together. Dal Giappone l’ancora poco noto Takeshi Kitano ammalia tutti con Hana-bi (letteralmente «fuochi d’artificio»), un film che folgora i critici a Venezia per la commistione, rivelatasi una caratteristica dell’autore, tra sublime poesia e cruda violenza, ironia e zen.

Il fattore Italia
La situazione del cinema italiano verso la fine degli anni Novanta è quanto mai complessa e delicata. Si discute della crisi in termini di provincialismo degli sceneggiatori o di mancanza di coraggio dei produttori. Tra i giovanissimi esordisce Matteo Garrone, che sorprende la critica con Terra di mezzo, vicenda tripartita sulla discriminazione razziale e la prostituzione extracomunitaria nel nostro Paese.

Dal cabaret alla tv il passo è breve, si sa, ma per Aldo Giovanni & Giacomo raccontare le loro «stripes» stralunate al cinema diventa una traduzione quasi letterale. E qui si rivela il loro limite. Tre uomini e una gamba fa sorridere, ma la vena sembra affievolirsi a ogni pellicola, l’umorismo e i tipi funzionano meglio al teatro o in tv. Un esordio alla regia che nel tempo confermerà la valenza del suo autore è quello di Ferzan Ozpetek, turco di nascita ma italiano di formazione. Il bagno turco - Hamam è un film che già contiene i semi di una nuova poetica, di occhi che sanno guardare e leggere altrove.


Roberto Benigni, reduce da successi all’epoca ancora definiti «di cassetta», si produce insieme alla  moglie e musa ispiratrice, Nicoletta Braschi, nel suo primo film «serio», anzi tragico: La vita è bella. La storia di Dante, libraio aretino durante l’occupazione nazista e la deportazione nei campi di sterminio vissuta insieme al figlio è buffa e commovente. Alcuni critici lo paragonano a Chaplin, sopravvalutandolo, ma non c’è dubbio che sia il film della maturità del comico toscano.

L’Iran s’è desto
Il 1997 è un’annata fertile per l’Iran, Paese mediorientale al centro di aspri conflitti religiosi, politici, sociali, ma anche di un dibattito culturale non privo di respiro, e politica, cinematografici. Lo dimostrano la Scuola Nazionale di Cinema e l’operato incessante di autori quali Abbas Kiarostami (Il sapore della ciliegia) e Mohsen Makhmalbaf. I Makhmalbaf costituiscono un famiglia di attori e registi dalla fertile vena. Il capostipite, Mohsen, che si era fatto conoscere a Venezia con Pane e fiore, presenta Il silenzio, mentre si riaffaccerà nel 2001 con Viaggio a Kandahar e poi nel 2006 con Viaggio in India. La figlia, Samirah, realizza il grezzo ma efficace La mela e partecipa, dopo il crollo delle Twin Towers, all’opera collettiva 11 Settembre 2001 (2002).

1998

Nuovi Dogmi
Forte del Dogma di Lars von Trier, dalla Danimarca arriva Thomas Vinterberg, che porta nel suo Festen - Festa in famiglia un duro atto d’accusa contro una strisciante finta moralità familiare. Un salto nelle fiabe e soprattutto nell’immaginario africano (di lingua francofona) ce lo fa invece fare Michel Ocelot, una delle novità più radicali, innovative e insieme tradizionali tra gli autori d’animazione. Kirikù e la strega Karabà è solo la prima di una serie di avventure del piccolo Kiriku, bambino-sapiente figlio di un’Africa antica e demoniaca, ma anche terra madre di scoperte, coloratissima e affascinante.

Il romeno Radu Mihaileanu è un’altra stella che brilla. Train de vie - Un treno per vivere è un anomalo film che racconta la storia di uno «scemo del villaggio» deportato nei campi di sterminio nazisti, rivelandosi alla fine il narratore superstite. Un’opera geniale, capace di scherzare con la tragedia dell’Olocausto nell’unica chiave possibile: il paradosso dichiarato.
Wim Wenders ci dimostra, con Buena Vista Social Club, quanto il documentario possa diventare una forma d’arte. Il regista di Düsseldorf, guidato dal chitarrista Ry Cooder (già suo collaboratore per le musiche di Paris Texas) ci dà un ritratto colorato, musicalmente trascinante degli anziani musicisti cubani, deliziosi e commoventi.

Tra le pellicole più ermetiche ricordiamo Memento di Christopher Nolan, labirinto temporale innescato da un montaggio solo in apparenza convulso. E’ la storia di un uomo (Guy Pearce) affetto da perdita della memoria a breve termine, costretto a ricostruire continuamente il suo passato per scoprire chi gli ha ucciso la moglie. Steven Spielberg si riappropria invece della fiducia del suo pubblico con Salvate il soldato Ryan, film che apre il Festival di Venezia e inchioda tutti alle poltrone con i primi 25 minuti. Mai prima di allora lo sbarco in Normandia era stato così reale, vissuto in «soggettiva» (l’occhio dello spettatore si identifica con quello dei marines).

Nel ’98 Gatto nero, gatto bianco irrompe nelle sale con la musica fragorosa di Goran Bregovic e porta l’universo rom alle vette della parodia e della dissacrazione. Lo firma il serbo Emir Kusturica, che sceglie una commedia simile al fumetto, contrariamente al precedente Underground, potente e disperata elegia sul popolo nomade.
Peter Weir, australiano, autore di film come Picnic a Hanging Rock, Witness, L’attimo fuggente, fa ancora centro con una storia anticipatrice di un futuro controllato dal Grande Fratello. The Truman Show è l’ennesimo capolavoro di un genio, che trova nella maschera, per la prima volta quasi seria, di Jim Carrey l’ipotetico destino di un cittadino controllato, attimo per attimo fin dalla nascita, da riflettori e telecamere. La demenzialità dei fratelli Peter & Bobby Farrelly irrompe infine sulla scena in Tutti pazzi per Mary, piccolo cult con Cameron Diaz (ricordate il «gel» che le tiene dritto il ciuffo all’appuntamento galante con Ben Stiller?).

Remake mania
Gus Van Sant spiazza tutti con il remake, fedele fino all’ultimo fotogramma, di Psycho. Curiosa operazione, rimasta isolata nella sua letteralità. Il regista tenta di rifare, inquadratura per inquadratura, il mitico giallo di Hitchcock esattamente com’era, con Vince Vaughn nei panni dello psicopatico Norman Bates (Anthony Perkins nell’originale) e Anne Heche in quelli di Janet Leigh. Interessante esercizio di stile, un po’ fine a se stesso. Perché rifare sempre lo stesso film? Il remake, la rilettura operata da un altro regista di un film già noto, magari famosissimo, sembra diventare una mania.
Gli americani divagano con Nora Ephron, che si concede un remake di lusso, C’è post@ per te, attualizzazione via web di Scrivimi fermo posta di Lubitsch (1939). Il film è un successone anche grazie alla scelta dei protagonisti, Tom Hanks e l’allora sulla cresta dell’onda Meg Ryan. La Ephron ci riproverà nel 2005 con Vita da strega, visto che il remake paga… ispirandosi alle vicende di Samantha e Darrin dell’omonimo serial tv degli anni ’60, con Nicole Kidman a evocare la bionda protagonista dal naso birichino. Ci prova anche Brad Silberling, tentando di rifare il cult tedesco Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, ma City of Angels - La città degli angeli è molto al di sotto dell’originale: prevedibile, con cadute di stucchevole romanticismo.

Ritorno in Italia
Nel 1998 per Nanni Moretti, che ci aveva lasciato con Caro diario (1993), è tempo di Aprile. Nella vita vera è diventato papà di Pietro e il film è praticamente un «caro diario due», spunto e metafora per le sue dissertazioni in cui privato e pubblico (politico) si mescolano, a tratti felicemente, talvolta si disperdono. Mario Martone, già rivelatosi al cinema con Morte di un matematico napoletano, usa il degrado e il laboratorio teatrale che gli è caro per raccontare i Quartieri Spagnoli in Teatro di guerra.

Voliamo alti, anche per i premi guadagnati meritoriamente, con Enzo D’Alò, che nel ’98 regala a grandi e piccini la favola cartoon de La gabbianella e il gatto: istruttivo e poetico, senz’altro più di Giuseppe Tornatore che, purtroppo, si perde, prolisso, tra le onde del breve romanzo Novecento di Alessandro Baricco. Il suo La leggenda del pianista sull’oceano è suggestivo a tratti, ma enfatico «alla Sergio Leone» senza essere un film di Sergio Leone. Il nome davvero nuovo sembra Gabriele Muccino, che inizia a farsi notare con film dal budget molto contenuto ma di una certa presa sulle ultime generazioni. Ecco fatto potrebbe essere definito una «storiellina di ragazzi e ragazze» e Come te nessuno mai (1999) proseguirà sulle tracce della riflessione adolescenziale.

Un tempo erano di cartone
L’animazione ha fatto passi da gigante, ma la tecnica mista è quella che stupisce di più. Ne è un esempio il ritorno del maialino Babe, che questa volta deve affrontare una tentacolare metropoli. George Miller dirige 24 esemplari animatronici di Babe, oltre a quelli veri, per Babe va in città. Dello stesso anno è Z La formica (doppiato da Woody Allen e quindi, in Italia, da Oreste Lionello), critica metafora dei rapporti di forza tra operai e padroni attraverso la vita di un formicaio. Il regista Tim Johnson tornerà con Sinbad - La leggenda dei sette mari (2003), meno fortunato e con La gang del bosco (2006).
Un respiro di sollievo e qualche risata ce la fa fare John Lasseter (Toy Story), con A Bug’s Life - Megaminimondo, ma incontreremo ancora le sue invenzioni animate in Toy Story2 - Woody e Buzz alla riscossa (1999) e Cars - Motori ruggenti (2006).

1999

Cambi di velocità
Invisibili ai media, i fratelli Andy e Larry Wachowski scrivono, producono, dirigono e montano nell’ombra delle loro visioni ardite. E dopo il noir-lesbo Bound cambiano registro, tema e soprattutto velocità con Matrix, autentica rivoluzione nel campo degli effetti speciali, inventando il «bullet time», cioè la tecnica di ripresa da 12.000 fotogrammi al secondo (contro i 24 del passo abituale della pellicola). Un sistema di traccianti e mappature al computer degli attori permettono un controllo millimetrico sul movimento, che si può modificare a piacimento senza sbavature, velocizzarlo, rallentarlo o fermarlo. Così le peripezie di Neo (Keanu Reeves), Trinity (Carrie Ann-Moss) e Morpheus (Laurence Fishburne) sbalordiscono per la novità e la qualità dell’illusione. Matrix diviene un cult assoluto. Seguiranno Matrix Reloaded e Matrix Revolutions (2003).

Due autori decisi a cambiar passo sembrano darsi appuntamento nelle sale. David Lynch con Una storia vera rallenta le sue connessioni oniriche, allucinate, frenetiche, per raccontare il viaggio su un trattore di un anziano signore (Richard Farnsworth), che percorre lento una quantità infinita di chilometri per andare a far pace con il fratello (Harry Dean Stanton) con cui aveva litigato 30 anni prima. Storia toccante, concepita in chiave minimalista, per un autore generalmente estremo. Robert Altman, invece, con La fortuna di Cookie naviga intorno al delta del Mississippi, ne assorbe la corrente per ridarla allo scorrere pigro della pellicola, per una storia del Sud che sa di blues e di crimini insoluti. Con Glenn Close, Julianne Moore, Liv Tyler, Chris O’Donnell.

Decisamente su un altro pianeta gli orientali. Al centro del nuovo film del giapponese Kitano c’è un bambino e L’estate di Kikujiro si rivela un’operina morale giocata sul filo del paradosso e di una comicità quasi involontaria, in realtà tenera e folle. Una sorpresa è anche il film girato dal monaco buddista Khyentse Norbu, che ci parla di calcio ne La coppa (si ripresenterà nel 2003 con l’iniziatico Maghi e viaggiatori).

Lampi al box-office
Nel cinema italiano di quest’anno l’unico regista che emerge in modo deciso è Giuseppe Piccioni, sensibile autore di cui ricordiamo almeno il precedente Chiedi la luna, che ritrova Margherita Buy e un malinconico, bravissimo Silvio Orlando in Fuori dal mondo, storia sentimentale di una novizia che sceglie di diventare suora nonostante la strana, sottile relazione con un uomo solo come lei.

In Francia Patrice Leconte (Il marito della parrucchiera) lascia il segno con il bianco e nero patinato e disperato sull’amour fou tra un lanciatore di coltelli (Daniel Auteuil) e una ragazza votata al suicidio (Vanessa Paradis) ne La ragazza sul ponte. Luc Besson si dedica ad un classico, Giovanna d’Arco, e punta tutto sulla presenza magnetica di Milla Jovovich. Si sorride su altri lidi con Roger Mitchell, che divaga piacevolmente su divismo e imbranataggine dell’uomo qualunque in Notting Hill, con Julia Roberts e Hugh Grant, mentre Harold Ramis stende sul lettino dello psicanalista, Billy Crystal, il boss mafioso Robert De Niro nel gustoso Terapia e pallottole.

Sam Mendes, regista inglese fino ad allora noto solo in patria per le sue realizzazioni teatrali, rivela una mano lucida e spietata mettendo a nudo le ipocrisie dell’american way of life di American Beauty, con Kevin Spacey, Annette Bening, Thora Birch, Wes Bentley e Chris Cooper. Mena Suvari immersa in una vasca piena di petali di rose non è solo il sogno del protagonista. Un bagno di fiori, una chimera, un miraggio prima del bagno di sangue finale.

Tra le rivelazioni l’astro di Hilary Swank, diretta da Kimberly Pierce nel lacerante Boys Don’t Cry e Manoj Night Shyamalan che lascia tutti col fiato sospeso ne Il sesto senso (un grado di suspence mai più raggiunto dal regista nei film successivi).
Infine, Pedro Almodòvar fa il suo film da Oscar, Tutto su mia madre, se vogliamo la summa del suo cinema nuovo, tinto di melò. I toni esplodono tra cariche esistenzialiste e iperrealiste. È un inno alla condizione femminile, non solo iberica e non solo di umore teatrale. Ambiguità, ipocrisia, tabù e sistemi totemici maschilisti sono fusi in una perfezione personalissima, sublimata poi in Parla con lei e Volvèr.

Hollywood trema
Il moralismo diffuso degli Studios vengono scossi da David Fincher, che con Fight Club mira basso, ma vola alto al botteghino. Brad Pitt graffiato e pesto mena botte da orbi senza guantoni in combattimenti clandestini. David O. Russell conduce George Clooney, Ice Cube e Mark Wahlberg in Iraq sulle tracce dell’oro di Saddam in Three Kings. È un’America problematica, meno sicura di sé ancor prima dell’11 settembre, questa del 1999, che al cinema presenta storie dure, talvolta senza speranza, private di quel sogno che aveva guidato le generazioni precedenti. Così Tony Kaye guarda nell’abisso delle coscienze deviate e violente con American History X e James Mangold scruta nel disturbato animo femminile in Ragazze interrotte (con la coppia stridente composta da Angelina Jolie e Winona Ryder). Non è da meno Sofia Coppola, che debutta con Il giardino delle vergini suicide.

Si risollevano in parte gli umori grazie alle provocazioni di Spike Jonze: Essere John Malkovich è una digressione puramente filosofica, cui aderisce l’attore presente nel titolo nei panni di se stesso. Tim Burton firma quindi uno dei suoi film migliori: Il mistero di Sleepy Hollow. Gotico, dark, fanta-horror, i generi aggettivanti si sprecano per questa saga nordica con Johnny Depp, Christina Ricci, Christopher Walken e, in un cameo, Christopher Lee.

Insider - Dietro la verità, di Michael Mann, è un film che attacca frontalmente le multinazionali del tabacco. Fa parecchio rumore e alimenta agguerrite campagne antifumo, che trovano nel film una leva per condurre una vera e propria crociata.
Frank Darabont pone invece l’accento sull’anacronismo della pena di morte negli Stati Uniti con Il miglio verde, mentre tutti attendono George Lucas, che torna quest’anno con il prequel di Guerre Stellari, Episodio I - La minaccia fantasma. Non può indirizzarsi a spettatori più giovani, ma la figura del monello Anakin Skywalker è ben introdotta.

Stanley, addio
Il 1999 registra l’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut. Il regista mito del Novecento, uomo che forse meglio di chiunque altro ha saputo integrare istanze artigianali e industriali del cinema, al pari di uno scienziato rinascimentale, firma il suo testamento: il Doppio sogno di Schnitzler da cui è tratto il film diventa viaggio nelle perversioni inespresse, nei desideri inconfessabili di una rispettabile coppia borghese, troppo cerebrale e frustrata per godersi la vita.

In realtà, come ogni grande, l’opera risulta incompiuta (il non-finito michelangiolesco), ma solo perché il regista muore nel suo laboratorio domestico mentre prepara, mai soddisfatto, l’ennesima versione del montaggio (lo finirà Leon Vitali, uno dei suoi collaboratori più stretti). Il film nelle sale lascia perplessi ma porta il marchio di Kubrick in quasi tutte le inquadrature. Tom Cruise e Nicole Kidman, allora sposati, dichiareranno di aver vissuto sotto l’effetto della lavorazione di Eyes Wide Shut ancora per molto tempo e le loro esistenze e carriere non saranno più le stesse, dopo.

2000

Mille e non più mille
L’alba del nuovo millennio porta con sé aspettative ma anche proiezioni apocalittiche, che stimolano gli autori soprattutto di fantascienza. Si iniziano a fare i conti con ansie e paure da Terzo Millennio. Le suggestioni non mancano ma gli autori escono in questo periodo con film anche sorprendenti. A Hong Kong Wong Kar-way realizza il suo capolavoro assoluto: In the Mood for Love. Una storia tutta giocata nel sottobosco dei sottotoni. Niente stride eppure ogni ambiente, personaggio, abito, luce è in contrasto con gli altri elementi dell’inquadratura. Definirlo storia d’amore è riduttivo. Lo è alla maniera di Antonioni, con grandi silenzi e vuoti da colmare di attese e ipotesi, con il respiro dei protagonisti (Tony Leung e Maggie Cheung) che potremmo chiamare anche solo Lui e Lei senza tema di risultare banali. L’impatto dell’impalpabile di In the Mood for Love resta la sua nota più enigmatica e suadente.

Wim Wenders si impiglia nel cadente The Million Dollar Hotel. La trama è un mero pretesto per inscenare un dramma da rivivere tutto in flashback in un vecchio albergo dove persone (derelitte) e situazioni (alla deriva) sembrano annunciare un clima da fine del mondo. Spiccano l’angelica Milla Jovovich e il disadattato Tom Tom (Jeremy Davies), oltre alla splendida musica degli U2.

Non poteva farsi sfuggire il clima da fine del mondo Lars von Trier, che trova in un’insolita quanto inedita coppia – Catherine Deneuve e la cantante islandese Bjork – una doppia metafora, fisica e musicale, per il tema del «passaggio». È Dancer in the Dark, in cui la protagonista è un’operaia che gradualmente diventa cieca e si macchia di un crimine per necessità, mentre le colorate coreografie contrappuntano alienanti panoramiche in fabbrica e silenzi che preludono alla tragedia. Gran film, che inizia con cinque minuti di buio e assenza totale di suono.

Roger Spottiswoode anticipa il dibattito sulla clonazione umana ne Il sesto giorno, mentre per Wolfgang Petersen è La tempesta perfetta (con George Clooney e Mark Wahlberg) a rappresentare idealmente la possibile fine di tutto. Brian De Palma, maestro della visione e della revisione dei classici, sceglie Mission to Mars, viaggio esplorativo sul pianeta rosso per indagare il futuro con circospezione. Joel e Ethan Coen prendono a modello perfino Omero, e l’Odissea, per raccontare una (stra)ordinaria storia del Sud degli Stati Uniti negli anni ’30. In Fratello, dove sei? il detenuto Clooney affronta ogni tipo di traversia fino a ritrovare la moglie perduta a causa del suo comportamento irresponsabile.

La figura del cosiddetto «perdente di successo», l’antieroe, il ribelle con una causa, rientra nel discorso della fine di un’epoca, ma con alcune eccezioni. Nel 2000 un regista come Ridley Scott riesce a riscattare, ancorché falsando la storia romana, il coraggio e la furia di un generale fatto schiavo e venduto al Colosseo per combattere nell’arena. Il più famoso monumento di Roma ricostruito al computer, la vita le battaglie e la fine di Maximus, la possanza mimetica di Russell Crowe fanno de Il gladiatore un esempio di kolossal atipico.
Steven Soderbergh produce ben due film, entrambi di forte denuncia sociale, entrambi con cast all star e storie vere, esemplari: Erin Brokovich - Forte come la verità, con una tostissima Julia Roberts, e Traffic, sul mercato internazionale della droga.

Ignari o impegnati?
Apparentemente fuori dal mondo, ma non più di tanto, gli italiani dell’anno 2000. Silvio Soldini scardina il realismo poetico con Pane e tulipani, a tutt’oggi insuperato per equilibrio degli opposti. Commedia agrodolce divagante e girovaga, con la casalinga disperata di Pescara (Licia Maglietta) che si «perde» in una Venezia che sembra sognata e il cameriere tedesco Bruno Ganz che sa poco italiano ma quel che sa lo declama in rima ariostesca.

Gabriele Muccino realizza quel che resta forse il suo film più acclamato e, in effetti, compiuto, sullo sbandamento di una generazione in cerca di valori: L’ultimo bacio. Il passaparola fra le persone è inarrestabile ed è il caso cinematografico dell’anno, al punto che perfino negli Stati Uniti se ne girerà una versione.
Rispetta i suoi patti con il film d’impegno civile Marco Tullio Giordana. I cento passi riscuotono unanimi consensi per la tragica storia del sindacalista Peppino Impastato (il film rivelerà Luigi Lo Cascio), che abitava a cento passi dal boss mafioso Tano Badalamenti.

Altre rive
Lo smaliziato pubblico del Festival di Venezia decide di premiare la regista indiana Mira Nair (Salaam Bombay, Kamasutra) per il bello, triste, rutilante Monsoon Wedding. L’inglese Stephen Daldry, che in seguito, nel 2002, si farà apprezzare per aver trasformato Nicole Kidman nella Virginia Woolf di The Hours, due anni prima avvince gli spettatori di mezzo mondo con Billy Elliott. La storia del ragazzino dei sobborghi con la passione per la danza, frustrato da un padre minatore e disoccupato, è una terapeutica esplosione di speranza e perseveranza. In USA il pittore Julian Schnabel, che si era già rivelato abile nel biopic (film biografico) con la vita, le opere e la fine per overdose del collega Basquiat nell’omonima pellicola, trova nell’attore spagnolo Javier Bardem il performer adatto di Prima che sia notte, storia anche qui non a lieto fine dello scrittore gay Reynaldo Arenas, vissuto nella Cuba castrista, morto esule a New York.

Il buon cioccolato è invece al centro di due film: Chocolat di Lasse Hallstrom, che ci trasporta in un mondo incantato e saporito, racconto di formazione di una bimba al seguito di una madre maestra cioccolatiera (Juliette Binoche) in una Francia da cartolina. Su un altro versante il sopraffino Claude Chabrol regala al pubblico Grazie per la cioccolata, tagliente partita a quattro familiare, in cui il cacao è insieme metafora e sostanza di sentimenti autentici ma a rischio estinzione.

2001

Odissea nello strazio
Il cinema italiano di quest’anno è stranamente dominato da un senso di sconforto nelle storie che racconta. Il ritorno di Nanni Moretti è contraddistinto da una deviazione profonda dai suoi abituali discorsi. La stanza del figlio lo vede regista e attore, insieme a Laura Morante, in una dolorosa vicenda familiare. È uno psicoterapeuta che perde il figlio adolescente e non riesce ad elaborare il lutto. Una sorta di «cognizione del dolore» toccata nel cuore e fugata dal pensiero.
Giuseppe Piccioni sceglie Sandra Ceccarelli e l’ormai lanciato Luigi Lo Cascio nel tormentato Luce dei miei occhi, ma è meno convincente e più opaco di Fuori dal mondo, mentre chi si consacra presso un vastissimo pubblico è l’astro in ascesa di Ferzan Ozpetek. È l’anno de Le fate ignoranti, ancora un piccolo ma sentito film sulla diversità e la tolleranza, sui casi spesso sorprendenti del cuore, un muscolo che sembra sublimare, alla fine, quasi ogni tipo di sofferenza. Il cast-famiglia del regista si consolida, con alcune presenze costanti come Margherita Buy, Stefano Accorsi, Serra Yilmaz.
Renzo Martinelli si immerge e fa travolgere nel catastrofico Vajont.

American Dream
Il sogno americano assume valenze curiose, ribaltate. E una gran goliardata di classe è il film che si concede Steven Soderbergh: Ocean’s Eleven - Fate il vostro gioco. Il «rat pack» di Sinatra e soci viene attualizzato dal testosteronico cast composto da Clooney, Pitt, Damon, Garcia, Gould alle prese con il colpo del secolo in tre casinò di Las Vegas.
In un momento di sperimentazione e fuga dalla realtà, un autore borderline come Richard Linklater attraverso Waking Life muta gli umani in cartoon con il «motion capture», un software che graficizza e anima, campionandoli prima, i gesti, le espressioni del corpo umano. E Keanu Reeves si ritrova sotto forma di ritratto animato in un sogno molto vicino alle dimensioni dell’incubo.

Ron Howard dà i numeri raccontando nel biopic A Beautiful Mind la vera storia di John Nash, matematico vicino alla schizofrenia ma anche all’elaborazione di geniali teorie. Lo interpreta Russell Crowe. Todd Haynes firma quindi un’accuratissima ricostruzione dei film di Douglas Sirk, maestro del melodramma anni ’50, in puro stile anni ’50. In Lontano dal paradiso la signora perbene Julianne Moore si ritrova a simpatizzare per il suo giardiniere di colore in una provincia bigotta e razzista (Haynes tonerà a stupirci con Io non sono qui, su Bob Dylan interpretato da sei attori diversi per differenti momenti della sua carriera).
Pete Docter diverte tutti in uno dei capolavori assoluti della Pixar, consociata Disney specializzata e in miracoli tecnologici: Monsters & Co.

Alejandro Amenàbar lascia la Spagna per un viaggio nell’Inghilterra dei fantasmi e delle ghost stories alla Henry James con The Others. Bellissimo pezzo di cinema con Nicole Kidman madre apprensiva di due bambini pallidi e timorosi, un padre che non torna dalla guerra e un clan di domestici da brivido.
Elitario e severissimo il Robert Altman di quest’anno: con Gosford Park inscena un dramma quasi teatrale attorno alla figura di un vecchio ricco e dispotico (Michael Gambon) in un’Inghilterra dai costumi malati, austera e classista.
Rob Cohen dà luogo al fenomeno giovanile di Fast and Furious (giunto attualmente al terzo episodio), mentre Chris Columbus firma Harry Potter e la pietra filosofale, primo film tratto clamoroso fenomeno letterario, e poi cinematografico, del maghetto con la cicatrice a saetta creato dall’inglese J.K. Rowling.

Così lontano, così vicino
Baz Luhrmann, australiano, consacratore di Leonardo DiCaprio in Romeo+Giulietta, «sposa» la compatriota Nicole Kidman in un melodramma cantato kitsch e glamour: Moulin Rouge. Stupisce Ewan McGregor in versione musical per una vicenda molto bohèmienne. Ma spingiamoci oltre. Il neozelandese Peter Jackson si conferma narratore e manipolatore di enormi budget adattando al grande schermo il ciclopico Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien. L’intreccio delle leggende nordiche attraversanti la mitica Terra di Mezzo, le trame degli Hobbitt, i destini di Gandalf, Saruman, Galadriel, Aragorn, Arwen si incrociano in una trilogia visivamente fedele all’atmosfera del romanzo e vedranno la luce nel 2001, 2002 e 2004.

In questo periodo il sud-est asiatico si spinge lontanissimo nei territori della mente con la coppia di registi Sakaguchi Ironobu e Sakakibara Monotori, che dal patrimonio dei videogames ricavano una realtà che profetizza Second Life. Final Fantasy è in realtà ben più di una fantasia. Lo è, invece, sempre ad altissimi livelli, quella di Hayao Miyazaki, «padre» dell’anime giapponese, che fa della creatività un sottile strumento d’analisi del mondo infantile con La città incantata.
È un po’ un’isola, nella stagione, Il diario di Bridget Jones, pellicola diretta da Sharon Maguire sulle peripezie professionali e soprattutto amorose di colei che diventerà «la» single degli anni Duemila, interpretata da un’elastica Renèe Zellweger insieme agli scoppiati Hugh Grant (finalmente in un ruolo «bastardo») e Colin Firth (potenziale fidanzato affidabile).

Il bosniaco Danis Tanovic, con No Man’s Land - Terra di nessuno, lancia invece un grido di sgomento, sebbene intriso di salvifica autoironia, fin dal titolo, verso una guerra terribile che non ha più confini né leggi internazionali né scopi né identità (vincerà l’Oscar del miglior film straniero). Ma tiriamo un sospiro di sollievo. Jean-Pierre Jeunet saluta il 2001 con un’autentica poesia: Il favoloso mondo di Amélie. E rivela Audrey Tautou, nuova icona femminile francese, attraverso una sorta di fiaba contemporanea e insieme senza tempo, tutta incentrata su questo personaggio ineffabile, grazioso e sfuggente, attraente e misterioso. L’invenzione surreale fa da contrappeso alle incessanti giravolte della storia.

2002

Nel set dilaniato di Ground Zero
La tragedia del crollo delle Twin Towers l’11 settembre 2001 è stato il dato più evidente ad aver cambiato la storia del mondo e, quindi, anche del cinema, che il mondo osserva e tenta di raccontare. Molte produzioni americane sono arrivate a cancellare dal computer le inquadrature in cui comparivano le Torri Gemelle (per esempio lo skyline che si poteva osservare riflesso negli occhi mascherati di Spider-Man). Alcuni film non sono neanche più usciti. Un solo, lungo documentario fatto di tanti cortometraggi dedicati all’argomento ha cercato di dare un senso a quest’anno tormentato, chiuso, difficile.

Così il titolo 11 Settembre 2001 è bastato a mettere insieme registi di diversi Paesi per mostrare ognuno dal suo punto di vista il suo angolo di lettura. Vi hanno partecipato autori quali l’americano Sean Penn, l’iraniano Abbas Kiarostami, l’indiana Mira Nair, il giapponese Shohei Imamura, l’israeliano Amos Gitai, l’egiziano Youssef Chahine… per un’opera collettiva importante come documento e monito. Inquietante sul piano interno, in tale contesto, il Michael Moore di Bowling a Columbine, film documentario sulla strage del liceo di Columbine (due adolescenti armati uccisero 13 coetanei prima di suicidarsi).

Il fascino «spudorato» di casa nostra
In Italia si assiste al ritorno di Franco Zeffirelli, che riesce a fare di Fanny Ardant una Maria Callas credibile e sul viale del tramonto in Callas Forever. Con un eccezionale Jeremy Irons nei panni del suo ultimo manager gay. Altrove, Marco Bellocchio consegna all’Italia uno dei film più belli dell’anno, in clima di dibattito acceso tra laicità e religiosità, con L’ora di religione - Il sorriso di mia madre e uno stupendo Sergio Castellitto in crisi di coscienza ma tenacemente distante dalle «tentazioni» dell’apparato Chiesa. Benigni fa invece flop con Pinocchio. Inutile dire che sia stato un bel film, come parte della critica si è sforzata di dire, perché la magia inseguita dal comico toscano e dalla moglie-musa-attrice-produttrice Nicoletta Braschi si spezza in questa rivisitazione della favola di Carlo Collodi. Lei Fatina sempre fuori timbro, lui burattino mai credibile. Una scelta sbagliata, succede.
Matteo Garrone si impone invece tra gli autori più promettenti con L’imbalsamatore, straordinario viaggio nella sciatteria e nell’immoralità di un ragazzo tranquillo, traviato da un sordido quanto curioso personaggio.

Contemplazioni e contaminazioni
È sempre stimolante vedere quando gli stili si incontrano e maturano originalmente in autori diversi e distanti fra loro. Il 2002 è l’anno in cui Kitano Takeshi (prima il cognome, poi il nome, come vuole la lingua giapponese) torna alle radici, perché cerca in un luogo e in un tempo mitico una storia sospesa di amanti nel rarefatto Dolls.
Danny e Oxide Pang, per contro, scoprono l’adrenalina della suspence tinta di horror con The Eye, che diventa presto un cult e non solo in patria, seguito dal prevedibile The Eye2 (2004), per approdare in Occidente nel 2007 con The Messengers, rispettoso tributo agli estremismi cromatici dei quadri di Van Gogh, all’Hitchcock de Gli uccelli e a molti horror di serie B dei primi anni ’80.
Nulla di tutto questo nello stile del coreano Park Chan-wook, che percorre senza indugio la via della violenza nuda e cruda (segno dei tempi o maniera?) con Mr. Vendetta - Sympathy for Mr. Vengeance, cui seguiranno il più acclamato Oldboy (2003) e ancora Lady Vendetta (2005).

Campo e controcampo
Andrei Konchalovskij, regista russo di nascita ma apolide di adozione, recupera quest’anno alcuni aspetti del suo primo cinema, approdando nella devastazione fisica e morale della guerra cecena per mostrare la purezza e la voglia di essere altrove di un gruppo di alienati in un nosocomio di frontiera. La casa dei matti è un bellissimo film che esplora lo stato di alterazione mentale quale unica via alla comprensibilità di un mondo sempre più ignoto e brutale.

Pedro Almodòvar raffina ancora la sua poetica e presenta al pubblico Parla con lei. Dove «lei» è in coma, vittima di un incidente e il suo infermiere non smette mai di parlarle, innamorato di questo corpo inerte. Gli uomini e le donne intorno si prendono, si lasciano, mentre la coreografa Pina Bausch introduce e chiude il film con due performance sublimi sulla natura dell’incomunicabilità. C’è anche un film nel film, alla maniera dei «muti» dell’inizio del ’900 (L’amante rimpicciolito), per cercare di penetrare le ragioni dei sentimenti.

Patrice Leconte, in Francia, è un autore che mira sempre alto e quest’anno raggiunge vertici notevoli con L’uomo del treno, confronto-scontro, fisico e ideologico, tra un abitudinario professore di provincia e un rapinatore di banche. Il dialogo ridotto all’osso tra Jean Rochefort e Johnny Hallyday è da antologia del cinema. Dominano primissimi piani, intenzioni sfumate, piccole crepe di una vita forse impostata male. Il finale proposto dal regista è infatti duplice.
In USA l’animazione ribolle, fermenta e si rivela grande laboratorio per autori del settore come Andrew Adamson, che sovverte ogni canone fiabesco con l’irriverenza di Shrek, al punto che «occorrerà» un secondo capitolo nel 2004 e un terzo (ma sarà più fiacco di idee) nel 2006 per narrare le vicende dell’orco dalle orecchie a trombetta, dell’audace principessa Fiona e delle creature del Regno di molto, molto lontano.

Tra «nicchia» e blockbuster
Difficile definire il limite tra un film per pochi esperti e un grande successo commerciale. Così in certi casi sorprende anche il critico più smaliziato osservare come un Ang Lee decida di portare sullo schermo l’antisupereroe verde Hulk, oppure un Roman Polanski affrontare la storia del suo popolo e le deportazioni naziste con Il pianista. Adrien Brody nel ghetto di Varsavia e i ricordi del Roman bambino sono strazianti e indimenticabili.

Paul Schrader, autore di nicchia ma direttore di attori star, sceglie Robin Williams regalandogli uno dei suoi migliori lati oscuri con il personaggio asettico e maniacale di One Hour Photo, mentre perfino Spielberg riesce a fare di un mostro sacro come Max von Sydow il cattivo di Minority Report (insieme all’ostinato Colin Farrell), contro un Tom Cruise agente federale alle prese con crimini ancora da compiere ma già «visti» dai precog, cavie da laboratorio della polizia scientifica del futuro.

La produzione dei film di James Bond affida al regista neozelandese ma ormai hollywoodiano Lee Tamahori le sorti di 007 - La morte può attendere (rivelando, accanto a Pierce Brosnan, una splendida Bond girl Halle Berry col costume bianco che fu di Ursula Andress nel primo, indimenticabile, Dr. No).
Martin Scorsese pianta i piedi nella terra degli antenati, anzi dei primi immigrati europei che occuparono e si contesero il territorio della Grande Mela nella sanguinosa epopea di Gangs of New York. Rob Marshall rivela un inedito Richard Gere cantante e ballerino di tip-tap in Chicago, musical sui favolosi e proibiti anni ruggenti con il trio al calor bianco costruito dalla bruna Catherine Zeta-Jones, la bionda Renée Zellweger e la coloured Queen Latifah. Spike Lee gira La 25° ora, ovvero un’ora in più, nell’arco di una giornata, per un condannato che dovrà andare in carcere ma, prima di scontare la pena, ha appunto 60 minuti per chiudere o sistemare le questioni lasciate in sospeso. Ed Norton si conferma tra i migliori attori della sua generazione.

2003

Affilate le lame
Oriente e Occidente sono sempre più vicini e l’anno del matrimonio culturale può essere proprio questo. La ragione è semplice se si guardano anche solo alcuni titoli e autori che, letteralmente, si corrono incontro, si rincorrono, si citano. Quentin Tarantino prende alcuni suoi attori-feticcio come Uma Thurman e Michael Madsen e li colloca in un’avventura fiume orgogliosa di raccontare una novella orientale. Kill Bill è l’odissea della Sposa (Thurman) che intende vendicarsi di chi l’ha ridotta in coma quando era anche incinta. E gli assassini sono un gruppo di killer del quale anche lei faceva parte… Il suo mentore è Bill, esperto in arti marziali ma americano (David Carradine), eppure seguace del guru Cha Hui Liu, venerabile del kung fu. I riferimenti ai b-movies di Hong Kong, allo stesso Carradine protagonista, negli anni ’70, del serial tv Kung Fu, gli omaggi a Sergio Leone e alle sue dilatazioni spazio-temporali prima dei duelli, la tromba messicana nel deserto, la tuta gialla e nera che fu di Bruce Lee indossata dalla Thurman non sono che espliciti richiami agli ispiratori dell’immaginario del regista, che gioca col montaggio alternato come i padri del cinema classico, con effetti speciali, rotazioni di visuale, carrellate all’indietro a scoprire scene inaspettate o primissimi piani molto cool. Il film è lunghissimo, quindi la Miramax che lo produce, d’accordo col regista, decide di far uscire nel 2003 il vol. I, mentre Kill Bill vol .II uscirà l’anno seguente.

La spada da samurai maneggiata abilmente dalla stessa Thurman taglia, certo, ma mai come quella di Takeshi Kitano, che quest’anno dirige e interpreta Zatoichi. Il titolo prende il nome dall’omonimo massaggiatore cieco, figura simbolica e leggendaria della novellistica popolare giapponese. È cieco, sì, ma velocissimo di spada e non si sa come faccia a percepire e uccidere nemici anche numerosi. I tratti umoristici si sprecano e il film in alcuni momenti diventa perfino un musical dal ritmo ancestrale. E l’energia dell’arma bianca sembra contagiare anche registi occidentali, tra cui l’Ed Zwick de L’ultimo samurai, il Peter Weir di Master & Commander e perfino il Gore Verbinski di Pirati dei Carabi, con La maledizione della prima luna.

Laboratori
Il cinema è vivo se sperimenta, se oltre all’industria si crea una serie di forze capaci di animare un laboratorio di tecniche, dove le idee non temono le limitazioni imposte dai budget realizzativi. In tal senso Oliver Stone si è sempre permesso film difficili e anche nel 2003 non si smentisce, per realizzare il documentario Comandante, sulla figura di Fidel Castro e la situazione cubana non molto tempo prima, profeticamente, dell’autodeposizione del lider màximo.
A budget limitato, ma per sua stessa «religione» produttiva, è Lars von Trier, che stavolta inverte la rotta del Dogma e installa il suo set in uno spazio teatrale, con tanto di segni di gesso per terra, luci artificiali, recitazione quasi convenzionale e venata di psicodramma, portando due generazioni di dive (Nicole Kidman e Lauren Bacall) a confrontarsi senza pudori in Dogville, inizio di una trilogia dell’autocritica.

Patrice Leconte non è da meno, ma ha il tocco più lieve ed ellittico. Per il suo Confidenze troppo intime sceglie direttamente una seduta di psicanalisi per sviscerare le turbe della protagonista Sandrine Bonnaire, che però sbaglia appartamento e confida tutto al fiscalista Fabrice Luchini.
Il coreano Kim Ki-duk, dal suo canto, trova nel rigore assoluto il massimo dell’emozione visiva con Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera. Un ipnotico giro stagionale e sensoriale che forse solo il mezzo del cinema riesce a concretizzare.
Più che un laboratorio è una palestra il debutto del divo George Clooney nella regia, per Confessioni di una mente pericolosa.

Trans-generi
Come si fa a classificare i generi? L’abbiamo già premesso ad inizio, è impossibile, specie per certi film dal tono misto, per scelta di stile e contenuto. Robert Altman dirige un quasi-documentario sulla storia di una compagnia di danza per carpirne i segreti, la fatica quotidiana, i rapporti tra i ballerini. The Company oscilla fra realtà e finzione, unici attori professionisti James Franco e Neve Campbell (lei sì ballerina, ma dilettante). Tra commedia e denuncia allo zolfo si colloca il cinema di Denys Arcand, già noto ai palati fini per La caduta dell’impero americano. Con Le invasioni barbariche lascia un segno di profondo disgusto intellettuale causato dall’avvento dell’indifferenza e di un certo Medioevo prossimo venturo, sempre più attuale.

Sofia Coppola è la vera novità. Il suo Lost in Translation - L’amore tradotto conferma buone capacità registiche: è vero che Bill Murray e Scarlett Johansson fanno scintille da soli, ma la maggior parte delle scelte di posizionare la macchina da presa e di dare peso ad un racconto altrimenti molto minimalista e schematico ci fanno salutare un nuovo, originale talento.
Open Range - Terra di confine segna il ritorno di Kevin Costner regista e produttore, oltre che attore, in un western talmente tradizionale da risultare atipico, ma intelligente nella scelta del ritmo pacato, introverso come il popolo dei cowboy che mette in scena, con un occhio a Ford e un altro ad Hawks. Tuttavia, osservato da una distanza che raggela anche la nostalgia.

Dalle nostre parti
Il 2003 per l’Italia segna il ritorno di Bernardo Bertolucci, che con The Dreamers - I sognatori, in realtà, ripercorre le strade dell’utopia sessantottina parigina, clima latente al celebre Ultimo tango. Abile scopritore di talenti attoriali, Bertolucci ha qui il merito, in un film sopravvalutato, volutamente citazionista e autoreferenziale, sensuale e incestuoso, di lanciare nel cinema Michael Pitt (sarà il Kurt Cobain di Last Days di Van Sant) e Eva Green (stupenda Bond-girl di 007 Casinò Royale).

Marco Tullio Giordana è per contro ben piantato nella realtà, ma anche lui viaggia nella memoria e cerca di recuperare, attraverso l’epopea generazionale de La meglio gioventù, le illusioni politiche e le conquiste sociali, ma anche le vittime, del fatidico ’68. Ferzan Ozpetek, pur restando fedele ai suoi temi, evoca un passato doloroso e indicibile (l’anziano protagonista, tra l’altro, ha perso la memoria) ne La finestra di fronte, nel quale raggiunge un ammirabile equilibrio tra storia d’amore dei giovani protagonisti – Raoul Bova e Giovanna Mezzogiorno – e Massimo Girotti, pasticcere gay al suo ultimo appuntamento con il cinema e con la vita. Il film è dedicato a lui, che purtroppo muore quando la pellicola è in post produzione.
Nell’anno del venticinquennale della morte di Aldo Moro due film, di opposta intenzione, rievocano gli anni di piombo: Piazza delle Cinque Lune (tagliato nell’ottica del complotto di Stato) di Renzo Martinelli e Buongiorno notte (nella direzione della poesia rivoluzionaria) di Marco Bellocchio.

2004

Rivelazioni
Delude il regista Pitof, che sembra avere il film giusto con la star giusta (la «pantera» Halle Berry), ma Catwoman è uno dei flop più pesanti della decade che stiamo considerando. È per contro godibilissimo l’insolito musical diretto dall’attore John Turturro, che si conferma un indipendente coi fiocchi in Romance & Cigarettes: una storia d’amore, contrastato, tra il pacifico James Gandolfini (il più famoso Tony Soprano televisivo) e una sboccatissima Kate Winslet, biondina procace dalla parolaccia facile capace di sedurre i crassi appetiti del protagonista, sposato ad una Susan Sarandon stanca e annoiata.
Alex Proyas, divenuto una specie di leggenda tra i giovanissimi dopo la regia del primo Il Corvo, oltrepassata Dark City arriva a filmare Will Smith in un’avventura del futuro alienante e desolante. Io, Robot trae ispirazione dall'omonima antologia di Isaac Asimov, che ci presenta le «tre leggi della robotica», che regolerebbero il rapporto tra uomini e macchine. Ma mentre nelle opere di Asimov le tre leggi non sono mai violate, il film si concede alcune digressioni sostanziali a vivificare la trama.

Il 2004 segna anche il ritorno di Michael Moore, solforico e polemico documentarista americano, che stavolta attraverso il montaggio di filmati sulla tragedia delle Twin Towers e le reazioni assurde del presidente Gorge W. Bush cuce un’indagine filmata sul dramma conclamato e l’incapacità governativa. E’ un attacco duro, plateale, istrionico il suo Fahrenheit 9/11.
Walter Salles racconta quei diari di Che Guevara prima che diventasse il rivoluzionario «cubano» che conosciamo. È pieno di promesse il suo I diari della motocicletta, grazie anche alle interpretazioni di Gael Garcia Bernàl (nei panni di Ernesto) e di Jean Pierre Noher (l’amico della facoltà di medicina, il biochimico Alberto Granado). Tratto da Latinoamericana - Notas de Viaje redatto dallo stesso Guevara, che studiava medicina, il viaggio si snoda fino al Macchu Picchu e al lebbrosario di San Pablo, migliaia di chilometri percorsi a bordo di una Norton 500, soprannominata Poderosa II.


Amenàbar riscuote un altro successo con Mare dentro, storia vera di Ramon Sampedro, aitante marinaio spagnolo che un giorno, tuffatosi in mare, si infortuna su uno scoglio e resta allettato per tutta la vita, finché non decide di interromperla, con la complicità della compagna che lo assiste. Il tema dell’eutanasia, ormai al centro e nell’agenda politica di  molti governi, viene sollecitato proprio da questo film in un momento, e in Paesi di matrice culturale cattolica, che tendono a boicottarlo.
In Germania Edgar Reitz prosegue nel suo intento di ricostruire la memoria storica al suo Paese, arrivando a realizzare il terzo capitolo dell’enciclopedico Heimat. Cronaca di una svolta epocale è una sorta di epilogo, ma insieme monito, alle generazioni future.

Un popolo di santi, navigatori e registi
L’Italia non si desta. Carlo Verdone si rassegna a constatare che L’amore è eterno finché dura, mentre Gianni Amelio porta sotto la luce dei riflettori il sempre più appartato Kim Rossi Stuart ne Le chiavi di casa. Un film triste e bello che riscopre il ruolo del padre.
Sergio Castellitto torna invece alla regia per la seconda volta esplorando il libro della moglie e collega Margaret Mazzantini Non ti muovere. La sincera confessione di un uomo sposato ma perdutamente innamorato di una donna sbandata è un po’ un classico, ma raccontato da Castellitto con mano sicura e spunti sottrattivi che giovano rispetto ad un romanzo un po’ scontato.
Francesca Comencini si ancora al sociale. Il suo Mi piace lavorare (sottotitolo esplicativo Mobbing) rappresenta una delle rarissime voci del cinema sulla precarietà del lavoro oggi in Italia. Nicoletta Braschi, solo attrice, rende bene il senso di impotenza di una larga parte dei cittadini lavoratori di fronte ai soprusi dei capi, in un meccanismo imploso da tempo. Una piacevole scoperta è Saverio Costanzo con Private. Si ripropone la sua personalità nel trattare argomenti delicati nell’elegiaca storia di un novizio con In memoria di me (2007).

Che fine avevano fatto?
Mike Nichols, inglese di lunga esperienza registica, è un autore eclettico, che ha fatto del sarcasmo intellettuale la chiave di lettura di ogni suo lavoro. Basti pensare al lontanissimo Chi ha paura di Virginia Woolf? ma anche Il laureato, Conoscenza carnale, fino a Piume di struzzo, remake «americano» de Il vizietto. Dopo una parentesi opaca con Da che pianeta vieni? (2000), Nichols lascia un graffio da vecchio leone con Closer: un quartetto al vetriolo tra inganni e disillusioni di coppie che scoppiano e non si comprendono. Il cast, oltre ai dialoghi, è perfetto: Natalie Portman, Clive Owen, Jude Law, Julia Roberts.
Su un altro versante Michael Mann riesce a convincere Tom Cruise a entrare nel suo primo ruolo da cattivo: il «villain» di Collateral, spietato killer a bordo di un taxi preso in ostaggio con il suo autista, un bravissimo Jamie Foxx. Quest’ultimo lo ritroviamo tra l’altro anche in Ray, di Taylor Hackford, nel ruolo di «the Genius», Ray Charles. L’interpretazione porta a Foxx un Oscar (un anno davvero d’oro per lui).
Mel Gibson, invece, che non vedevamo dirigere un film dai tempi di Braveheart, torna in campo con il discusso La passione di Cristo, fedele al Vangelo e a una Parola che le chiese americane sostengono con una forza promozionale impressionante. Il marketing farà il resto e benché molte scene e soluzioni somiglino a splatter movie qualsiasi, il film scuote l’opinione pubblica, anche laica, in qualche modo richiamata a riflettere su una storia di cui è noto il finale… fin dall’inizio.

2005

Il paradosso dei budget
Ci sono film che sembrano costati milioni di euro, o dollari, e invece si scoprono sostenuti da budget limitati, così come, al contrario, film apparentemente «semplici» fanno lievitare i costi in maniera incalcolabile. Un regista che si muove con attrezzature davvero leggere, per non dire essenziali, è Philip Groening, filmmaker tedesco che si è calato nei molteplici e simultanei ruoli di regista, produttore, direttore della fotografia, sceneggiatore, montatore, fonico de Il grande silenzio. Un’opera unica nel suo genere, né documentario né film a soggetto, o meglio una fusione poetica di entrambi. Groening ha scelto di vivere sei mesi in isolamento nella Grande Chartreuse, monumentale abbazia certosina delle Alpi francesi, dove i monaci vivono nel più assoluto silenzio, pregano, lavorano i campi, mangiano e studiano ognuno nella propria cella-dormitorio. Quasi tre ore di contemplazione filmata che ammalia un pubblico davvero numeroso.

Woody Allen è da sempre innamorato del cinema di Ingmar Bergman. E quest’anno ne «approfitta» per costruire un thriller inglese (suo primo set fuori dall’amata Manhattan, budget ridotto come al solito): Match Point. Come suggerisce il titolo, è la storia di un campione di tennis (Jonathan Rhys-Meyers), della sua ragazza altolocata e di una passione letale per un’altra ragazza (Scarlett Johansson, che da ora sarà la nuova musa del regista newyorchese). Il misfatto non resterà impunito per puro scherzo del destino o, meglio, del nastro della rete da tennis, quando sul punto decisivo, il «match point», basta un millimetro per vincere o perdere una partita.

Liev Schreiber, attore meno noto al grande pubblico, si rivela quest’anno con la sua prima regia e il suo Ogni cosa è illuminata è uno dei pochi film pienamente riusciti degli ultimi tempi. Le tradizioni, la persecuzione, il ritrovamento delle radici di un ragazzo ebreo americano (Elijah Wood, reduce dal personaggio di Frodo de Il Signore degli Anelli) nella terra degli avi. L’assurdo diventa un registro per mostrare un senso dove la ragione non viene ospitata.

Effetti speciali, affetti personali
Anagraficamente fuori corso, George Lucas riesce a ultimare la sua seconda trilogia di Star Wars. Episodio III - La vendetta dei Sith è il migliore dei tre della seconda serie di avventure della famiglia Skywalker, che qui impianta definitivamente i suoi geni con l’amore tra Anakin adulto (Hayden Christensen) e la senatrice Amidala (Natalie Portman). Amore segreto e sfortunato, destinato a fallire. Anakin sarà sedotto dal lato oscuro della Forza nonostante gli avvertimenti di Yoda, Obi Wan Kenobi (Ewan McGregor) e l’intero consiglio dei Cavalieri Jedi, mentre Amidala morirà dando alla luce i loro gemelli, Luke e Leila. Le battaglie spaziali sono spettacolari, il pathos è vorticoso, la dialettica dell’eterna lotta tra Bene e Male risulta più scavata e conturbante rispetto ai primi due episodi.

Ang Lee porta negli ampi spazi delle praterie una delle sue più intense storie d’amore. I segreti di Brokeback Mountain irrita alcune comunità benpensanti per il «love affair» tra due rudi cowboys (Heath Ledger e Jake Gillenhaal), orchestrati con inusuale grazia. Riceve molti riconoscimenti, dal Festival di Venezia ai Golden Globe, ma resta all’asciutto di Oscar, vinti invece dall’altra pellicola dell’anno, Crash: contatto fisico, di Paul Haggis (già sceneggiatore di Million Dollar Baby, con cui Clint Eastwood si era aggiudicato 4 statuette).

Jim Jarmusch quest’anno torna alle origini del suo modo di fare cinema. E rivediamo il vecchio filmmaker a corto di budget con l’asciutto Broken Flowers, storia di un uomo qualunque (Bill Murray) che ritorna sui suoi passi e va in cerca delle donne della sua vita, che naturalmente sono cambiate ma ridefiniscono il non saper stare al mondo del loro ex. Sceltissimo e azzeccato cast femminile, da Sharon Stone a Jessica Lange, da Tilda Swinton a Julie Delpy e Chloe Sevigny.
David Cronenberg firma un’antologia dell’ineluttabilità degli istinti primordiali seguendo le giornate di una «normale» famiglia americana della pigra provincia. A History of Violence è una sorta di A sangue freddo di capotiana memoria. Viggo Mortensen è un padre e marito affettuoso, pacato, almeno fino a quando (dopo appena cinque minuti di film) non irrompono due balordi nella sua tavola calda. Ma la doppia identità dell’uomo verrà a galla.

Tim Burton e Johnny Depp viaggiano sulle ali della fantasia più sfrenata con un classico della letteratura inglese per bambini, La fabbrica del cioccolato di Roald Dahl, ma riteniamo sia più importante il segno che il regista ci lascia con il nuovo cartone animato La sposa cadavere, movimentata riflessione sull’aldiquà e l’aldilà, dove il regno dei morti è coloratissimo mentre i vivi si nutrono di ogni sfumatura di grigio.

George Clooney, che aveva esordito nella regia qualche tempo prima, torna dietro la macchina da presa e convince molto di più con Good Night, and Good Luck, una riflessione sul cinismo e l’illusione della verità nel mondo dell’informazione negli anni ’50, in America, ovvero sotto le regole censorie del maccartismo.
La passione di Peter Jackson per un suo mito d’infanzia sfocia nel 2005 in King Kong, rilettura anche troppo espansa, ma abbastanza avvincente, più del primo Kong della storia del cinema (quello di Shoedsack e Cooper, 1933) che del remake anni ’70 prodotto da Dino De Laurentiis.

L’Italia vede «nero»
Agli italiani piace nero. La cronaca di sangue, il giallo, l’indagine su cittadini al di sopra di ogni sospetto è l’humus in cui ha deciso di muoversi quest’anno Gabriele Salvatores. Quo Vadis, Baby? testimonia una svolta per lui, che sceglie Angela Baraldi, attrice e cantante dall’aspetto rockettaro e un po’ maudit, per la sua detective privata che indaga sulla morte per suicidio della sorella, a distanza di 16 anni dalla tragedia. Quo Vadis Baby è diventato di recente anche una serie tv prodotta da Sky e Colorado Film (la storica casa di produzione di Maurizio Totti, che ha realizzato tutti i film di Salvatores).
Batte dalle parti del petto il film di Ferzan Ozpetek Cuore sacro, che spinge la mistica del denudamento quale rivoluzione contro-capitalistica in questi tempi indifferenti. È incarnata dalla protagonista Barbora Bobulova, manager di successo che decide di spogliarsi, come San Francesco, di ogni bene.

Michele Placido fa il suo film migliore con Romanzo criminale. Le ragioni del successo sono molteplici: il soggetto (le «imprese» della Banda della Magliana ridotte dal romanzo del magistrato-scrittore Giancarlo De Cataldo), il cast (Kim Rossi Stuart, Riccardo Scamarcio, Pierfrancesco Favino, Stefano Accorsi, Jasmine Trinca, Anna Mouglalis), il piglio anti-accademico e con impennate veriste.

Sul fronte della commedia agrodolce si muove invece Giovanni Veronesi, che miscela bene le componenti amare e comiche di Manuale d’amore, un trittico di storie indipendenti ma unite da quel legame spesso sfilacciabile del rapporto a due.
Una novità è rappresentata dall’opera a quattro mani firmata da Federico Greco e Roberto Leggio, due giovani filmaker artisticamente ossessionati dalla leggenda letteraria, maledetta, dello scrittore Howard Phillips Lovecraft. Partendo da un suo ipotetico manoscritto rinvenuto in Italia, nel Polesano, un’indagine spinge i due registi a navigare il Po per scoprirne di più. Il mistero di Lovecraft - Road to L. è alla fine un buon esempio di docu-fiction. E il confine tra i due generi qui è di fatto invisibile.

2006

La voce dell’autore
Terrence Malick, a dieci anni da La sottile linea rossa, presenta The New World, quel nuovo mondo che diventerà gli Stati Uniti, abitato inizialmente dai nativi indiani che verranno poi scoperti, combattuti e colonizzati. È la storia di Pocahontas, principessa pacifica destinata a innamorarsi del capitano di ventura John Smith (nel film è Colin Farrell) per poi contaminarsi con la civiltà e morire prematuramente in nave durante il viaggio di ritorno.
Fa scalpore dieci mesi prima di uscire, invece, il nuovo film diretto da Ron Howard, che decide di trasporre per il cinema quel pastiche voluminoso, complesso e dal clamoroso successo letterario che risponde al titolo de Il Codice da Vinci. Il risultato artistico è mediocre, nonostante un discreto box-office e le ire dell’Opus Dei, che prende distanze molto dure dal film e da tutta l’operazione.

Severo e accorato è piuttosto quel Diario di uno scandalo messo in scena da Richard Eyre, che sceglie due attrici di lusso, la giovane Cate Blanchett e l’attempata madame Judy Dench, per sfogliare le pagine della relazione non corrisposta tra una giovane insegnante e una sua anziana collega, solitaria e morbosamente invaghita della più giovane, sposata e coinvolta in una relazione sessuale con un suo alunno. Una gara di bravura tra le due attrici.

Il 2006 è anche l’anno del lungo addio del grande Robert Altman, malato da tempo, che sceglie la vera storia di una radio del Paese per Radio America, il suo ultimo film girato tutto negli studi del network che trasmette, seguito da 4 milioni di americani ogni settimana, il programma A Prairie Home Companion. Alcuni fra gli attori più quotati sono fanno a gara anche in veste di cantanti e comici dell’emittente, da Tommy Lee Jones a Kevin Kline, da Meryl Streep a Woody Harrelson.
Clint Eastwood spiazza tutti con due film sullo stesso argomento: la battaglia di Iwo Jima durante la Seconda Guerra Mondiale. Originale e importante l’intento, che è quello di analizzare il fatto storico da due punti di vista contrapposti: americano (il film è Flags of Our Fathers) e giapponese (Letters from Iwo Jima). Quest’ultimo più coraggioso e anti-patriottico.

L’Italia dei fenomeni
Fausto Brizzi fa il colpo grosso con Notte prima degli esami, film che diventa subito un minicult tra gli adolescenti (tanto da richiamare l’inevitabile sequel con Notte prima degli esami - Oggi). Il prof. carogna Faletti e i giovani protagonisti Nicolas Vaporidis e Cristiana Capotondi da allora saranno sulla bocca di tutti.
Si aggiunge spessore con Gianni Amelio, che affronta, tra i primi, la questione cinese ne La stella che non c’è, disincantata riflessione sul potenziale «espansionistico» italiano nel nuovo colosso economico. Marco Bellocchio firma quindi uno dei suoi film più estrosi e insieme criptici, Il regista di matrimoni, con Sergio Castellitto nel ruolo di un regista stanco di una professione che non lo motiva più e che ritrova, nel riprendere scene di nozze, l’autenticità perduta dei set. Giuseppe Tornatore, dopo sei anni, torna invece con La sconosciuta. Una storia ruvida, attuale, un’incursione nella degenerazione dei rapporti tra esseri umani.

Nel 2006 c’è anche il ritorno e l’affondo di Nanni Moretti, che produce e gira in gran segreto Il caimano, film su Silvio Berlusconi dopo il secondo premierato. Il film resta un j’accuse prima a noi stessi e alla nostra distrazione che al principale bersaglio dell’invettiva. Promettente invece il debutto nella regia di Kim Rossi Stuart, con Anche libero va bene, sguardo sincero su un padre (lo stesso Rossi Stuart), una moglie sempre in fuga (Barbora Bobulova) e due figli da crescere, specie il maschio, che lui vorrebbe nuotatore.

Quando si dice mainstream
Cos’è il mainstream? In arte, in ogni settore, è il prodotto di largo consumo, realizzato con regole pensate per piacere ai più. Ma il mainstream non è un prodotto di bassa qualità. Ce ne fossero prodotti facili da consumare del livello di confezione di una commedia brillante come Il diavolo veste Prada. Il regista David Frankel confeziona, è proprio il caso di dire, un film perfetto sulla smania di perfezione della direttrice di «Vogue» Meryl Streep, tirannica con le sue giornaliste come la dolce e sprovveduta, ma poi agguerrita, Anne Hathaway. E quintessenza del mainstream, visto che è stata anche un serie televisiva di culto negli anni ’80, è la versione cinematografica girata da Michael Mann del «suo» Miami Vice, con l’adrenalinica coppia di poliziotti Colin Farrell e Jamie Foxx.

L’orrore del traffico illegale dei diamanti e dei bambini soldato in Sierra Leone è apertamente denunciato dal teatro di guerra messo in scena da Ed Zwick in Blood Diamond - Diamanti insanguinati (mainstream impegnato…), interpretato e co-prodotto da Leo DiCaprio, fortemente coinvolto in un pubblico atto d’accusa contro le multinazionali dei diamanti che sfruttano, o favoriscono «legalmente», il crimine.
Mainstrean può a sua volta essere 300, ovvero i 300 soldati guidati da Leonida nella battaglia delle Termopili, trascrizione grafica per il grande schermo del suo fumetto di Zack Snyder, in realtà vuota esibizione di muscoli e glamour fetish.
Mainstream per eccellenza è quindi il cartone animato, ma quale livello di cura e spettacolo anche nel sequel L’era glaciale2 - Il disgelo. Con uno Scrat (lo scoiattolino condannato a non gustare mai la sua ghianda) divo assoluto.

Europa VS Cina
Almodòvar scava nei legami femminili e, dopo la torva, morbosa parentesi de La mala educaciòn, riprende il discorso iniziato con Tutto su mia madre per approdare al sarcasmo magico, fondamento della sua poetica, di Volver - Tornare. Lo spirito della trama è puro DNA almodovariano: sorelle e cugine spolverano al cimitero la tomba della cara madre, inizio folgorante, musica leggiadra, clima festoso nonostante il luogo. Inizio geniale per introdurre una vicenda di amore insano, violenza casalinga, assassinio, incomprensioni familiari e una madre arsa in un rogo ma ancora… indomita! Penélope Cruz e Carmen Maura, di fatto il paradigma temporale e attoriale del regista, fanno decollare il film.

Il tedesco Florian Henckel von Donnersmarck con Le vite degli altri (protagonisti Martina Gedeck e Ulrich Mühe) si aggiudica l’Oscar 2007 quale Miglior Film Straniero. La storia è scarna e insieme passionale: nella Berlino Est del 1984 il capitano Gerd è un agente della Stasi incaricato di svolgere interrogatori e sorvegliare i sospettati di dissidenza politica. Il Muro non è ancora caduto, lui ha una fede cieca nel socialismo ma le sue convinzioni saranno scardinate dal giorno in cui riceve l’incarico di tenere d’occhio una coppia di artisti.

Oltre a Still Life, del cinese Jia Zhang-ke, che vince il Festival di Venezia, torna Zhang Yimou con uno dei suoi film più potenti e sontuosi: La città proibita. La traduzione in realtà tradisce il significato del titolo, che traslitterato sarebbe «città proibita viola», ma il titolo inglese della distribuzione internazionale riporta «i fiori proibiti». Si tratta di migliaia di crisantemi gialli, che in Cina non sono i fiori dei morti, stesi a riempire la piazza ai piedi del palazzo dell’imperatore. Lo spettacolare film con Chow Yun-Fat e Gong Li (che ritrova il suo regista di formazione dopo Lanterne rosse) è ambientato nella Cina del X secolo, durante la dinastia militare dei Tang. Ogni azione è controllata da un protocollo minuzioso. Tutto sembra in ordine ma l’apparente liturgia nasconde segreti e intrighi inconfessabili, che verranno alla luce seminando dissoluzione, morte e distruzione.

2007-2008

Gli outsider esistono ancora
David Cronenberg realizza un crudissimo e intenso film sulla mafia russa a Londra: La promessa dell’assassino (l’originale, più accurato e appropriato, Eastern Promises). Spietato e gelido come sempre anche nello stile visivo, il regista ritrova il Viggo Mortensen di The History of Violence, se vogliamo ancora più «sotto copertura»: fa l’autista al proprietario di un ristorante russo, ma i colpi di scena non mancano. Al suo fianco Vincent Cassel, perfetto nel ruolo del figlio viziato, arrogante e nevrotico del ristoratore (Armin Mueller-Stahl) e una Naomi Watts sempre più brava, credibile anche nei panni di un’ostetrica di origini russe che entrerà fatalmente nella vita delle gang dell’Est.

Julian Schnabel presenta al pubblico (vincerà il premio della critica al 60° Festival di Cannes) Lo scafandro e la farfalla. È la storia di Dominique Bauby che, colpito da un ictus a 42 anni, nel 1995, decide, prima di morire, di dettare un libro di pensieri con il solo movimento di una palpebra, unico elemento del suo corpo in grado di funzionare in modo controllato. Il corpo come uno scafandro. Il punto di vista (e la fragilità, ma anche motilità di pensiero) di una farfalla.

Persepolis, adattamento per lo schermo dell’autrice Marjane Satrapi dai suoi quattro volumi di fumetti, è una delle maggiori rivelazioni della stagione 2007-2008. L’animazione racconta una doppia, dolorosa trasformazione: di una giovane donna e di un Paese ottenebrato dalla censura religiosa. Tutto questo in un fumetto in cui il bianco e nero (isolatissimo il colore) narra speranza, sottolinea delusione, fotografa la realtà meglio di qualsiasi documentario. Facendo tesoro delle medesime istanze, sembra che al Festival di Cannes 2008 l’israeliano Ari Folman «risponda» alla Satrapi. Nel suo Waltz with Bashir il regista racconta la sua stessa esperienza da soldato 18enne, arruolato al tempo dell’invasione del Libano nel 1982, episodio che provocò un massacro di rifugiati palestinesi innocenti. Attraverso l’impiego di una elaborata tecnica mista il film animato riesce a prendere le distanze dall’orrore di una guerra infinita.

Effetti collaterali
Quando Woody Allen, negli anni ’70, scriveva di «side effects», cioè effetti collaterali, non poteva sapere quanto sarebbero state profetiche le sue intuizioni. La sdrammatizzazione avviene quest’anno con il racconto «morale» di un triangolo amoroso al vetriolo: Vicky Christina Barcelona è il buffo titolo, che fa riferimento a luoghi e protagonisti della sua vicenda. Set spagnolo con Penelope Cruz, Javier Bardem e l’ormai fedele Scarlett Johansson (protagonista, lo ricordiamo, di Match Point e Scoop).
Gus Van Sant non si smentisce con il suo Paranoid Park. Un film emblematico, perché come pochi rappresenta la crisi di coscienza giovanile e non solo degli adolescenti negli Stati Uniti. Un caso di omicidio in cui è coinvolto un giovane skater, la cui vita sarà inesorabilmente cambiata.

Robert De Niro torna alla regia dopo il lontano Bronx. The Good Shepherd - L’ombra del potere è un ampio squarcio sulle origini della CIA, nata con ben altre finalità rispetto alle politiche degli ultimi anni. Il titolo menziona il carattere biblico dell’ispirazione del fondatore dei servizi segreti statunitensi, nati in realtà solo per proteggere e guidare («il buon pastore», appunto) un popolo ritenuto massonicamente eletto. Con Matt Damon e Angelina Jolie.
Sorvola il dato materiale e confina abbondantemente nei labirinti della filosofia un inedito Francis Ford Coppola, fermo da 10 anni, convinto solo dal potere di un libricino, Un’altra giovinezza, dello storico delle religioni Mircea Elide, a tornare al cinema. Autore e produttore totale, si concede tuttavia il lusso culturale di impiegare maestranze e casting esclusivamente romeno per girare il suo film. Unici attori noti Tim Roth e Bruno Ganz.

Grindhouse - A prova di morte è un film di Tarantino, ma in realtà appartiene a un più ampio progetto imbastito per la tv da lui e dal sodale Robert Rodriguez. Sotto tiro i b-movies, ovviamente, degli anni ’70 e uno stuolo di ragazze stupende e terribili (su tutte, la rossa Rose McGowan, ormai lanciatissima nuova sex symbol).
Anche Juno è un bell’esempio di «effetto collaterale», vincitore del premio della giuria alla Festa del Cinema di Roma 2007. E’ diretto da Jason Reitman e interpretato dalla giovanissima Ellen Page, una ragazzina che resta incinta e decide di tenere il bambino. Più originale è l’occhio di Laurent Cantet (Palma d’oro al 61° Festival di Cannes, nel 2008) sulla vita sconosciuta degli insegnanti di scuola. Ogni cosa si consuma tra le mura scolastiche, fuori dal mondo. E il titolo, infatti, è Entre les murs (Tra le mura).

Effetti speciali
Come poteva mancare Steven Spielberg all’interno di questo blocco di riflessioni sugli ultimi tempi? Il regista torna addirittura per la quarta volta dietro la macchina da presa per il sequel di un suo cult assoluto: Indiana Jones. Ne Il Regno del Teschio di Cristallo Indy, com’è ormai affettuosamente chiamato anche lo stesso Harrison Ford, dopo infinite tribolazioni produttive e rimandi si tuffa nella giungla messicana e honduregna. In questo periodo scoppia anche la Marvel mania, film ispirati ai maggiori supereroi nati dalla penna d Stan Lee. Sulla scia di X-Men, ecco lo Spider-Man3 di Sam Raimi, I Fantastici 4 e Silver Surfer, per la regia di Tim Story; Hellboy2; Iron Man interpretato da Robert Downey jr., Hulk2, con Ed Norton.

Divertente seppur con qualche pecca, infine, lo spettacolare Shoot ’Em Up, con un duro dal cuore tenero, Clive Owen, al fianco di una meno credibile Monica Bellucci in un film-parodia dei killermovies alla John Woo (cui tra l’altro si ispira). La pellicola va presa per quel è e sfreccia veloce tra proiettili che fischiano su donne incinta, feroci assassini e il protagonista Owen che fa il verso perfino alle gag di Bugs Bunny, con una carota che sostituisce spesso l’arma da fuoco.

Italiani domani
Mentre Ferzan Ozpetek lavora al suo Un giorno perfetto, con Isabella Ferrari e Valerio Mastandrea, va segnalato il corale, tagliente e sofferto Saturno contro (che rivela perfino una showgirl come Ambra Angiolini in un ruolo che ha la forza di lanciarla anche nel cinema). Tutto ruota attorno a un ragazzo che muore (Luca Argentero) e lascia amici e conoscenti a gestire la crisi ed elaborare il lutto. Notturno bus, di Davide Marengo, è invece il primo film (dopo il documentario Craj) di un autore da tenere d’occhio nei prossimi anni, per la personalità dimostrata nel dirigere gli attori e la già matura capacità di orchestrare generi e tecniche narrative. Daniele Luchetti si rivela più amaro e penetrante del solito in Mio fratello è figlio unico, confronto inconciliabile tra due sex symbol che non si attraggono: Elio Germano e Riccardo Scamarcio.
Paolo Virzì con Tutta la vita davanti dà l’occasione a molti giovanissimi di un call center (ultima illusoria boa di un lavoro non precario) di emergere e ad alcuni amici, Ferilli, Ghini… di ritrovarlo sul set.

Il 2008 sarà però «registrato» innanzitutto per un esordio d’autore e una doppietta al Festival di Cannes. Ne La ragazza del lago di Andrea Molatoli, già «aiuto» sui set di diversi registi (tre David di Donatello) le investigazioni di provincia dell’ispettore Toni Servillo sono come una lenta danza in una realtà indecifrabile. Sarà un caso, ma anche gli altri due film con cui concludiamo la nostra riflessione sulla Settima Arte vedono Servillo protagonista. L’attore napoletano è infatti sia in Gomorra di Matteo Garrone sia ne Il divo di Paolo Sorrentino, due pellicole che hanno lasciato un segno profondo, come si diceva, a Cannes. Gomorra è la trasposizione dell’omonimo romanzo di Roberto Saviano contro il «sistema» della camorra; Il divo è l’elaborazione, libera ma efficacissima, di un Paolo Sorrentino ispirato alla figura di Giulio Andreotti, protagonista assoluto di 60 anni di storia della politica italiana, personaggio dalla maschera ironica e insieme diabolica, quintessenza del machiavellismo e del compromesso. Viva l’Italia.