Curcio Medie

Il campo in cui si incontrano compratori e venditori è il mercato: i primi rappresentano la domanda di beni e servizi, i secondi rappresentano l’offerta.

L’andamento del mercato è quindi determinato dalla quantità di beni richiesta dai consumatori (domanda) e da quella offerta dalle imprese. Ma vediamo insieme che cos’è concretamente un’impresa.

Chiunque, singolo o gruppo, organizzi e gestisca il processo produttivo di un bene o servizio qualsiasi viene definito un’impresa. Esistono naturalmente tanti tipi di impresa, dalle più piccole e semplici, come il chiosco dei gelati o il giornalaio all’angolo della strada, alle più grandi e complesse, come la Fiat o l’Ibm.

Ma che cosa diversifica e accomuna questi due estremi, in apparenza così lontani? Le differenze saltano subito all’occhio: una cosa è l’organizzazione e la gestione di un chiosco di gelati con un unico proprietario e nessun dipendente, che vende i suoi coni solo a chi passa in quella strada; altro è mandare avanti un colosso come la Fiat, con migliaia di dipendenti, tante fabbriche sparse per l’Italia e che deve avere un’organizzazione in grado di vendere le sue vetture in tutto il mondo.
Eppure, nonostante le macroscopiche differenze, esiste un elemento unificatore che permette alla scienza economica di studiare tutti i tipi di impresa, utilizzando gli stessi parametri, a prescindere dalle loro dimensioni. Gli economisti, infatti, partono dall’ipotesi che tutte le imprese, grandi o piccole, abbiano il medesimo obiettivo: massimizzare i loro profitti.

Tante imprese, un solo obiettivo
Prima di spiegare che cosa si intende per massimizzazione del profitto, sarà opportuno chiarire che cos’è il profitto. Il profitto viene molto semplicemente definito come la differenza tra ricavi e costi:

ricavo - costo = profitto

I costi sono costituiti dalle spese che un’impresa sostiene per la produzione di beni o servizi in un determinato periodo (in genere un anno), mentre i ricavi sono le somme di denaro che l’impresa ha ottenuto dalla vendita di beni e servizi prodotti nello stesso arco di tempo.

Ma come dovrà regolarsi un’impresa affinché i ricavi siano maggiori dei costi e vi sia quindi un profitto?
Facciamo un esempio. Supponiamo che il signor Rossi faccia il libraio: tra le sue spese figureranno le somme di denaro impiegate per acquistare i libri dalle varie case editrici, l’eventuale affitto del locale, la luce, il telefono, lo stipendio del commesso (se ne ha uno) e le tasse da pagare. La somma di tutte queste voci indica i suoi costi; tutto il denaro incassato vendendo i libri costituirà invece il suo ricavo.
Nel fare i suoi conti il nostro libraio dovrà quindi considerare l’ammontare delle sue spese e il prezzo a cui può vendere i libri. Se lo scarto tra costi e ricavi è troppo basso o addirittura nullo o, peggio, negativo (se cioè non vi è profitto o questo è talmente basso da non consentirgli di sopravvivere), vorrà dire che al libraio conviene chiudere, oppure che deve modificare qualche fattore. Considerando che non può arbitrariamente alzare il prezzo dei libri come e quanto vuole (chi comprerebbe a 50 euro un libro che ne costa 20?), l’unica cosa che può fare, se non vuole chiudere, è abbassare i costi. La scienza economica e l’esperienza insegnano che per massimizzare i profitti un’impresa deve innanzitutto tendere alla minimizzazione dei costi.

La struttura produttiva italiana è caratterizzata dalla predominanza di imprese di piccole dimensioni.

Ma come farà il nostro libraio ad abbassare i costi? Se il volume dei suoi affari non è molto alto potrà, per esempio, decidere di non avere un commesso, perché basta il suo lavoro a sbrigare l’attività del negozio. L’altra via per far quadrare i suoi conti potrebbe essere aumentare le vendite, ma in tal caso dovrà tenere conto della domanda dei suoi clienti; infatti, se nel suo quartiere il numero di potenziali lettori è di 100 persone e il volume dei loro acquisti è mediamente di un libro al mese, una buona pubblicità e qualche sconto potranno far crescere un po’ le vendite, ma certamente i lettori non si moltiplicheranno come «i pani e i pesci».
Se prendiamo per esempio una fabbrica qualsiasi, questo discorso risulterà ancora più chiaro; infatti la decisione di produrre la massima quantità di beni possibile non necessariamente coinciderà col massimo del profitto, in quanto un’immissione eccessiva (se supera la domanda) di un qualsiasi bene sul mercato può causare o un abbassamento dei prezzi o un accumulo di merci invendute nei magazzini. In entrambi i casi la nostra fabbrica non avrà tratto un grosso profitto dall’aumento della produzione.
Ogni impresa, quindi, prima di fare il suo ingresso sul mercato, dovrà valutare qual è la richiesta del bene che si accinge a produrre e/o a vendere, qual è il suo prezzo e a quali condizioni e in che quantità le conviene produrre.

Piccolo manuale della produzione
Da quanto detto si intuisce che il mestiere dell’imprenditore, cioè di colui che si assume la responsabilità delle decisioni e delle scelte produttive dell’impresa, è irto di difficoltà.
Sarà estremamente importante, per far marciare bene l’azienda, che egli riesca a combinare e utilizzare in modo efficiente, cioè senza sprechi, tutti gli elementi che concorrono alla produzione. Abbiamo già visto che questi elementi vengono definiti fattori di produzione – o, per utilizzare un altro termine molto in voga, input – e rappresentano tutto ciò che entra nel ciclo produttivo di un bene: dal robot più sofisticato al lavoro del fattorino, dalle materie prime all’energia.

Dal piccolo manuale della produzione traiamo un esempio: torniamo al chiosco dei gelati. L’imprenditore in questo caso è il gelataio e anche lui nel suo piccolo dovrà decidere come comportarsi: tenendo conto dell’affollamento del suo chiosco, di quante materie prime (cioè latte, zucchero, uova, cioccolato, frutta ecc.) gli occorrono, se per lui è più conveniente fare i gelati a mano o acquistare una macchina, se è il caso di fare tutto da solo o farsi aiutare da qualcuno. Come si regolerà il nostro gelataio?
Valuterà innanzitutto qual è la richiesta di gelati, quanto gli costano gli ingredienti per farli e a quale prezzo può venderli. Se è particolarmente fortunato o i suoi coni particolarmente buoni, per cui l’afflusso di clienti è notevole, forse varrà la pena di acquistare dei macchinari che facilitino il suo lavoro producendo maggiori quantità di gelato in minor tempo e magari assumere un ragazzo che lo aiuti nel servizio.
Ma se invece il volume dei suoi affari è più ridotto, allora non sarà opportuno acquistare una macchina il cui costo risulterebbe difficile da ammortizzare  (il che vuol dire che dovrebbe vendere moltissimi gelati per potersi rifare dei soldi spesi), né sarà conveniente per lui accollarsi la spesa fissa del salario di un dipendente, che ridurrebbe sensibilmente il suo guadagno.
Queste regole di comportamento sono applicabili a tutte le imprese, quali che siano le loro dimensioni, anche se naturalmente più grande sarà l’impresa più complesse saranno le valutazioni e le decisioni. La Fiat, per esempio, nel decidere di automatizzare la produzione avrà certamente tenuto conto del fatto che gli altissimi costi di macchinari così sofisticati potevano essere ammortizzati in breve tempo con la vendita di migliaia di autovetture e che in ogni caso il costo del lavoro di migliaia di dipendenti era meno conveniente, nel lungo periodo, rispetto a quello dei macchinari; questi infatti, benché bisognosi di manutenzione e rinnovamento, una volta coperte le spese dell’acquisto, risultano meno costosi dei lavoratori, che percepiscono sempre il salario, il quale tende ad aumentare progressivamente per adeguarsi al costo della vita.

Uno, pochi o tanti?
Grandi o piccole che siano e quali che siano le loro scelte produttive, tutte le imprese lavorano per produrre e vendere i loro prodotti sul mercato in cui si trovano ad agire. Ma i mercati sono tutti uguali? La risposta è no. Essi differiscono a seconda di come acquirenti e venditori si muovono al loro interno.

Se produttori e consumatori pensano di non poter influire sui prezzi dei beni, che quindi considerano dati, allora si dice che il mercato è in concorrenza perfetta. Perché si verifichi questa condizione è necessario che i produttori e i consumatori siano molti; in tal caso, infatti, il comportamento e le scelte del singolo non potranno influire sull’andamento complessivo del mercato, essendo sia la produzione sia il consumo frazionati in tante minutissime parti.
Prendiamo per esempio i fornai: questi sono moltissimi e ognuno di essi rifornisce una piccola parte di consumatori. Chiunque decida di dedicarsi a questo mestiere saprà sin dall’inizio che i prezzi a cui potrà vendere il suo pane saranno quelli adottati anche dagli altri produttori; se infatti decidesse di alzare il prezzo del pane, otterrebbe come unico risultato di perdere i suoi clienti, i quali si rivolgerebbero altrove. Egli non avrà perciò altra scelta, per massimizzare i suoi profitti, che produrre nel modo più efficiente possibile, cioè senza sprecare né tempo né denaro né risorse e minimizzando i costi. In una situazione come questa un nuovo fornaio può sempre entrare nel mercato senza produrre forti scombussolamenti. Naturalmente ciò che abbiamo detto è vero se tutti i fornai producono pane dello stesso tipo. Se infatti un fornaio produce del pane particolare, è evidente che sul mercato rispetto a quel pane non avrà concorrenti (se è il solo a produrlo) o ne avrà pochi (se anche qualche altro fornaio produce pane dello stesso tipo). Verrà quindi a trovarsi in una situazione di concorrenza imperfetta.

La concorrenza imperfetta si ha quando il numero degli operatori è limitato. In questa situazione produttori e consumatori ritengono che le loro scelte possano influenzare in qualche modo i prezzi di mercato. Consideriamo ora due casi di concorrenza imperfetta: l’oligopolio e il monopolio.

L’oligopolio
Un oligopolio è un settore produttivo nel quale operano solo poche imprese. Un esempio classico è quello delle fabbriche di automobili che, in quasi tutti i paesi, sono in numero molto limitato. Gli oligopoli nascono per ragioni di convenienza: alcuni beni particolarmente complessi (tra cui, appunto, le automobili) possono essere prodotti a costi accessibili solo da grandi imprese che coprono con la loro produzione una larga fetta del mercato e, producendo grandi quantità di merce, hanno la possibilità di contenere le spese. Si tratta spesso di imprese che impiegano tecnologie avanzate, i cui costi sono riassorbibili solo se le quantità prodotte sono molto elevate. È chiaro che in regime di oligopolio è molto difficile per una nuova impresa inserirsi nel mercato. Per i consumatori, inoltre, i danni e i disagi derivabili da accordi oligopolistici illegali sono simili a quelli dovuti a un monopolio non controllato.

Il fatto di essere in pochi, infatti, favorisce gli accordi tra le imprese per mantenere a un certo livello i prezzi del settore. Questi accordi (detti anche cartelli economici o trust) possono essere legali o illegali. Sono legali quando vengono regolamentati da normative particolari e specifiche: ne è un esempio l’Opec, che rappresenta l’unione dei principali paesi produttori di petrolio, accordati tra loro al fine di mantenere a un certo livello sia i prezzi sia la produzione del greggio  senza farsi concorrenza.
Sono invece illegali quando le imprese produttrici si coalizzano segretamente per mantenere alti i prezzi del bene che producono. Per evitare che ciò accada e per tutelare il mercato, i vari stati sono spesso costretti a introdurre nella loro legislazione norme antitrust più o meno ferree che limitano la concentrazione industriale e gli accordi tra le imprese. In Italia, dove una normativa antitrust è stata adottata solo nel 1990, l’abuso di posizione dominante e l’intesa restrittiva della concorrenza vengono punite con sanzioni amministrative.

I monopoli
Il monopolio, invece, è una forma di mercato caratterizzata dalla presenza di un solo operatore che esercita, di diritto o di fatto, una sorta di esclusiva nella commercializzazione di un prodotto (sia esso un bene o un servizio).

Esistono, ad esempio, monopoli che riguardano lo sfruttamento industriale e/o commerciale di un bene appartenente a un unico proprietario. Pensate per esempio a una fonte di acqua minerale che si trovi esclusivamente su un terreno di proprietà di un singolo e che questi decida di sfruttarne a fini commerciali le proprietà terapeutiche: egli si troverà a operare in regime di monopolio. Questi casi di monopolio sono tuttavia piuttosto rari, perché i beni prodotti, anche se si differenziano, sono di fatto sostituibili l’uno con l’altro. In questi casi, perciò, si preferisce parlare di concorrenza monopolistica.
Diversa è invece la circostanza in cui il monopolio deriva dalla concessione di un brevetto al prodotto commercializzato: è il caso, per fare un esempio, dei prodotti farmaceutici, in cui l’esclusiva della vendita è giustificata dalla necessità di permettere all’industria che ha «scoperto» il farmaco di rientrare delle ingenti somme investite nella ricerca scientifica.

Anche al di fuori della concessione di un brevetto, tuttavia, si possono creare monopoli giustificati dall’ingente somma investita per garantire un determinato servizio. È il caso dei servizi pubblici (elettricità, gas, telecomunicazioni, ferrovie ecc.) che necessitano di reti infrastrutturali talmente vaste e ramificate da poter essere realizzate solo da grandi imprese, generalmente a proprietà pubblica.
Pensate a quali e quanti disagi potrebbero essere arrecati alla collettività se una di queste imprese, lasciata nelle mani di privati senza essere sottoposta a vincoli di utilità pubblica, decidesse di alzare esageratamente i prezzi: ci ritroveremmo a pagare bollette astronomiche o a cenare a lume di candela. Anche in questi monopoli, tuttavia, si sono gradualmente introdotti elementi di concorrenza, grazie all’affermarsi di sistemi di finanziamento «misto» che rendono sempre più accessibile anche alle imprese private l’ingresso nella gestione delle grandi infrastrutture.

Esistono, infine, i veri e propri monopoli statali, esercitati cioè direttamente dallo stato e non (come, ad esempio, nel caso delle rete ferroviaria) da semplici imprese a proprietà pubblica. In Italia, il monopolio statale viene esercitato da un organo del Ministero dell’Economia e delle finanze (Aams, Amministrazione autonoma dei Monopoli di stato), che ha il compito di gestire in ogni suo aspetto il settore del gioco pubblico e gode dell’invidiabile gettito fiscale  derivante dal poter imporre sui tabacchi un complesso di imposte e dazi che arriva a coprire fino al 75,5% del prezzo di vendita.

Ma quali sono i poteri del monopolista? Innanzitutto sceglie se mettere o non mettere in vendita il prodotto; spesso, poi, tende a ritardare l’uscita di un nuovo prodotto per evitare che i consumatori, attratti dal nuovo, ne abbandonino altri che possono ancora garantire guadagni al produttore. In questa scelta le preferenze del consumatore sono del tutto trascurate.
Una volta stabilito di produrre e vendere il prodotto, tuttavia, il monopolista deve comunque fare i conti con le preferenze dei consumatori e con la concorrenza di altri prodotti simili. Naturalmente egli riuscirà a ottenere profitti elevati se la domanda del prodotto è rigida (se, cioè, tende a mantenersi malgrado l’aumento dei prezzi). Ciò avviene nel caso di prodotti necessari che non hanno possibilità di essere sostituiti immediatamente (energia elettrica, trasporti pubblici, assistenza sanitaria ecc.).
È per questo che, in tali settori, lo stato tende a intervenire, regolamentando rigidamente i comportamenti delle imprese coinvolte, partecipando alla loro gestione con propri capitali o, addirittura, assumendo il monopolio del settore (allo scopo di imporre prezzi accessibili a tutti). Pensate, infatti, a quali e quanti disagi potrebbero essere arrecati alla collettività se uno di questi imprese, lasciata nelle mani di privati senza essere sottoposta a vincoli di utilità pubblica, decidesse di alzare esageratamente i prezzi: ci ritroveremmo a pagare bollette astronomiche o a cenare a lume di candela.

Insomma: nei settori a domanda rigida, dal punto di vista dei consumatori, è generalmente preferibile un regime di monopolio statale (o, perlomeno, un regime concorrenziale fortemente regolamentato dallo stato); nei settori a domanda elastica (dove è la domanda e non l’offerta a fare il prezzo) è invece preferibile un sistema fortemente concorrenziale. Quando la domanda è elastica, infatti, un regime di monopolio (sia privato sia statale) finirà sempre per costringere il consumatore a pagare prezzi più elevati che in una situazione di concorrenza.

Un rimedio americano
La prima legge importante per il controllo dei monopoli e delle concentrazioni di grandi imprese, lo Sherman Act, fu promulgata negli Usa nel 1890: impediva qualsiasi accordo tra le imprese che limitasse gli scambi o controllasse i prezzi. Nel 1914 fu emanato invece il Clayton Act, che ampliava le restrizioni introdotte per combattere i tentativi di monopolizzazione del mercato e per difenderne la libertà.

 

GLOSSARIO

Ammortizzare. Reintegrare in un periodo stabilito le spese sostenute per gli impianti, mediante pagamenti periodici o accantonamento di quote.

Gettito fiscale. Entrate dello stato derivanti da imposte o tasse.

Greggio. Petrolio grezzo, vale a dire così come viene estratto dai giacimenti e prima di essere trasformato in prodotti lavorati.

 

ATTIVITÀ PER LE COMPETENZE

1- Qual fattori determinano l’andamento del mercato?

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2- Definisci il concetto di profitto.

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3- Quali strategie possono essere attuate per «massimizzare» il profitto?

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4- Spiega e confronta la «concorrenza perfetta» e la «concorrenza imperfetta».

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5- In quale mercato si parla di «domanda rigida»? In quale invece di «domanda elastica»?

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