Curcio Medie

A ognuno di noi è capitato di sentire, o anche di dire, frasi come queste: mi hanno rifilato un bidone (mi hanno imbrogliato), oppure sono a quattro di bastoni (sono distrutto), o anche il vecchio ha ragione (io ho ragione). Queste sono frasi in gergo, anche se chi le sente, o perfino chi le usa occasionalmente, non lo sa.

Parlando di gergo occorre anzitutto fare chiarezza sui termini. In senso stretto con gergo si intende la parlata di alcuni gruppi sociali marginali (vagabondi, mendicanti, malviventi), come vedremo in seguito. C’è però – assai diffuso – un uso estensivo, e improprio, del termine gergo: il gergo dei medici, il gergo dei giornalisti, il gergo sportivo. In questa accezione con gergo si intende un linguaggio settoriale o tecnico, cioè una terminologia specifica legata a un’attività. Questo uso estensivo e improprio è nato dall’erronea convinzione che i gerghi storici fossero diversi tra loro e che fossero lessicalmente legati in modo diretto al mestiere esercitato.

In realtà, come vedremo, i gerghi storici sono sostanzialmente uguali, cosicché è possibile parlare di un gergo unitario che possiede varietà locali, piuttosto che di gerghi diversi; inoltre la terminologia del mestiere è praticamente assente in molti mestieri: ad esempio il gergo dei calderai (gli artigiani che fabbricavano pentole) aveva termini gergali largamente comuni a tutti i gerghi italiani – che ricoprono tutti gli ambiti semantici della vita quotidiana – ma non aveva voci gergali per la terminologia tecnica del mestiere del calderaio, che era espressa non in gergo, ma in dialetto.

Gerghi transitori
A metà tra uso proprio e uso improprio del termine gergo stanno le espressioni gergo militare, gergo studentesco, gergo dei giovani. Anche questo uso estensivo è in parte improprio, perché non si tratta di gerghi storici in senso stretto; c’è però un’indubbia comunanza, seppure parziale, tra le lingue speciali militare, studentesca, giovanile e i gerghi storici, che forniscono, a queste, parte dei termini usati. Infatti c’è, e c’è stato, un contatto – a volte assai stretto – tra l’ambiente militare, studentesco, giovanile, e l’ambiente marginale (della strada, della piazza, della malavita) in cui è in uso il gergo storico. Queste lingue speciali militare, studentesca, giovanile possono essere definite gerghi transitori, cioè gerghi in uso in determinate fasce d’età (i giovani) e in determinate condizioni di temporaneo allontanamento dalla vita «normale» (servizio militare, quando era obbligatorio, tempo degli studi).

Gerghi storici
La confusione tra i gerghi storici e altri tipi di linguaggio (tecnico, settoriale) nasce anche da un diffuso pregiudizio sulla natura dei gergo, troppo spesso creduto una lingua artificiale e criptica. Esaminiamo separatamente i due attributi: con artificiale si intende in realtà una lingua inventata meccanicamente, per lo più attraverso deformazioni fonetiche o scambi automatici di sillabe - il che non è vero, o è vero solo in piccolissima misura. Inoltre si crede che il gergo sia una lingua trasfigurata a bella posta a scopo criptico, cioè per non farsi capire dagli estranei. E anche questo è falso. I gerganti stessi tendono ad avallare questa falsa credenza, affermando di parlare il gergo per non farsi capire; ma in realtà il gergo non è usato mai o quasi mai in presenza di estranei. Il gergante racconta volentieri di usare l’amaro (uno dei nomi del gergo) per intendersi con lo zaraffo (il compare) per meglio improsare (imbrogliare) il bello (bello o vincenzo è l’ingenuo da spennare, il gonzo). In realtà, in queste situazioni delicate, l’impiego del gergo sarebbe altamente rischioso perché insospettirebbe il gagio (il non gergante, l’estraneo). Il gergo, in effetti, è usato soprattutto – e diremmo quasi esclusivamente – per la comunicazione normale, corrente, tra gerganti. Infatti il lessico gergale copre uniformemente l’intera gamma delle necessità e delle possibilità comunicative quotidiane, e non è per nulla specializzato, cioè non è affatto limitato alla comunicazione illecita o comunque professionale.

Dopo queste osservazioni, volte a sgomberare il campo da pregiudizi e luoghi comuni, vediamo in positivo cos’è il gergo e chi sono i gerganti.

Mercati e fiere mostrano ancor oggi il composito mondo della “piazza”, descritto nello straordinario libro Il ciarlatano pubblicato nel 1902 dall’imbonitore e ambulante mantovano Arturo Frizzi. Mondo dei furbi, dei dritti, dei furfanti (per citare alcuni nomi con cui i marginali gerganti si definiscono), un mondo - come scrive Alberto Menarini, il massimo specialista italiano di gergo - popolato da «girovaghi, ciarlatani, presentatori di fenomeni, tenutari e imbonitori di baracconi, giostre e divertimenti diversi; da cavadenti e venditori di specifici, unguenti, cerotti e dentifrici; da commedianti, cantastorie e giocatori d’azzardo; da ladri, vagabondi, accattoni, e sciagurati afflitti da malattie e mutilazioni più o meno truccate. Da tutti coloro, in breve, che costituivano il mondo classico delle fiere e dei Luna Park di ogni paese: un mondo turbolento e parassitario, i cui componenti, in parte imbroglioni, oziosi e malintenzionati, misti a rifiuti e relitti sociali di ogni genere, avevano in comune la vanità di ascriversi alla categoria dei dritti, e con zelo concorde impegnavano tutte le risorse della malizia e dell’astuzia contro l’ignoranza e l’ingenuità dei gonzi. Di particolare interesse era la categoria dei saltimbanchi, acrobati, giocolieri, caucci (o contorsionisti), funamboli, prestigiatori e buffoni: tutta gente che per deficiente o diminuita capacità professionale, o per altri malinconici motivi, aveva preclusa la via del circo e del teatro, o l’aveva definitivamente perduta. Perciò, tutti questi ‘artisti’ dovevano accontentarsi di ingrossare le file dei posteggiatori, e di eseguire i loro numeri nei pubblici ritrovi, nei baracconi da fiera, o addirittura all’aperto, sulla pubblica piazza». (A. Menarini, Gergo della piazza, in AA.VV., La piazza, a cura di Roberto Leydi, Milano, 1959, pp. 476-477)

La caratteristica culturale principale del mondo della “piazza”, il segno di riconoscimento e di appartenenza, è l’uso del gergo, lingua particolare, diversa dall’italiano e dai dialetti, e propria delle classi marginali. Nelle Autobiografie della leggera - testimonianze autobiografiche di marginali gerganti raccolte e pubblicate da Danilo Montaldi (Torino, 1961) - è attestato esplicitamente l’uso del gergo come forma di riconoscimento. In genere i gerganti si riconoscono subito dall’aspetto, ma, se vi fosse qualche dubbio, ci si può rivolgere in gergo alla persona: se lo capisce, vuoi dire che «è dei nostri»; la frase utilizzata a questo scopo dai gerganti cremonesi è el pisto el ghe dis a la sigagna (il prete dice alla donna): come si vede, non significa niente di particolare, ma serve solo a verificare la conoscenza del gergo.

Il gergo utilizza la grammatica e la fonetica delle lingue e dei dialetti locali, ma vi innesta un proprio lessico, largamente comune in tutta l’Italia e in parte anche comune agli altri gerghi europei (l’argot francese, il cant inglese, il Rotwelsch tedesco, la germanìa spagnola. il calão portoghese ecc.).

L’elemento più sorprendente, nell’infinita varietà dei gerghi (antichi e moderni, dei malviventi e degli ambulanti), è la straordinaria unitarietà lessicale. I gerghi italiani (e in parte europei) hanno un’ampia base lessicale comune, che si realizza in forme fonetiche diverse, a seconda della lingua o del dialetto locale di riferimento.

Facciamo qualche esempio: i significati di “essere” e di “avere” in gergo sono unificati in un unico termine, stanziare, che è testimoniato in tutta Italia, e nei più diversi gerghi, fin dal Quattrocento: stantiare in Teseo Pini (XV sec.), stanziare in Luigi Pulci (XV sec.), nel Modo nuovo de intendere la lingua terga (XVI sec.) e nel Ruzante (XVI sec.) per quanto riguarda i gerghi antichi; per i gerghi moderni abbiamo stansià nel gaì (gergo dei pastori bergamaschi), stanziàr nel rungin (gergo dei calderai della Val Cavargna), nei gerghi dei calderai della Val di Sole, degli arrotini della Val Rendena, degli spazzacamini della Val di Non, nel gergo veneziano; stanzià nel gergo degli spazzacamini d’Intragna; stanscià nel gergo degli ombrellai del Vergante; stansiàr nel gergo dei girovaghi padani (riportato nel Ciarlatano del Frizzi); stanziare nel gergo degli ambulanti e girovaghi fiorentini; stanzèr nel gergo bolognese; sc-tanzièr nel gergo dei calzolai ambulanti della Valfurva; sc-tanziare nel gergo dei muratori di Nereto; stanziare nel gergo dei camorristi napoletani; stanziari nel gergo siciliano; istanzài nel gergo dei malviventi sardi.

Ancora un altro esempio: nel significato di “moneta d’oro” abbiamo nei gerghi una voce che significa “rosso”: nel gaì bergamasco rusì (= rossino); nel furbesco (gergo dei malviventi italiani) rosso; nel gergo romanesco rossetto; nel gergo dei girovaghi padani rossume; nel gergo bolognese ras (= rosso); nel gergo dei ramai sardi rossino; e anche il gergo inglese ha red (= rosso). Un ultimo esempio di forme lessicali comuni a gerghi di mestiere molto distanti geograficamente. Nel significato di «denaro» abbiamo: gergo dei calderai della Val Cavargna (Como) malàina; gergo dei calderai di Tramonti (Friuli) malàina; gergo dei calderai di Dipignano (Cosenza) miuàina; gergo dei calderai di Monsampolo (Ascoli Piceno) mëlànië.

Oltre agli elementi lessicali, vi sono alcune caratteristiche morfo-sintattiche, di particolare importanza, che si ritrovano in tutti i gerghi:

 

  1. espressione del pronome personale per mezzo dell’aggettivo possessivo riferito a un sostantivo «vuoto» (che si può tradurre a piacimento con «persona» o simili) e il verbo sempre alla terza persona. Ad esempio, nel gergo dei calderai della Val Cavargna ul me vél (letteralmente «il mio velo», con velo che in gergo significa «corpo», quindi «il mio corpo«) significa «io», ul to vél «tu», ul so vél «lui» ecc., dul me vél «mio, di me» ecc.; quindi ul me vél al cùbia significa «io dormo» (in gergo cubiàr «dormire»).

Nei gerghi può variare la parola «vuota», ma il procedimento è sempre lo stesso: gaì bergamasco, ol mé masér «io»; gergo degli ombrellai del Vergante, ol me tona «io»; gergo dei malviventi veronesi, el me igi «io»; gergo degli ambulanti e girovaghi fiorentini, mivisi «io»; gergo palermitano, me isa «io»; gergo bolognese, al mi médiz «io»; gergo dei calderai della Val di Sole, el me òden «io». Attestazioni anche nel furbesco antico: miece «io», tuice «tu»; il Modo nuovo de intendere la lingua zerga (XVI sec.) dà queste parole per il significato «io» (si noti in tutte la presenza di mio o di mon «mio», che rinvia alla prima persona singolare): monello, simone, montagna, mia matre, monarcha; inoltre vi è anche la forma il gobbo «io», che ricorda quella, già menzionata, il vecchio (ad esempio il vecchio ha ragione «io ho ragione») dell’italiano popolare semigergale di oggi. Anche nell’argot francese ritroviamo lo stesso procedimento: meziére «io»; tezière «tu»; manneau «io», tonnant «tu» ecc.;

 

  1. costruzione delle frasi negative mediante la posposizione della particella negativa bus, buschia (nelle sue varie vesti fonetiche secondo i gerghi), che significa propriamente «niente»: gaì bergamasco impeltre bös «non capisco». Si noti il diffuso tipo sanbussan «zitto» (nell’antico furbesco abbiamo debusse «taci»);

 

  1. negazione espressa con un termine parafono di no (quindi termini che hanno sempre n iniziale): furbesco nisba; antico furbesco niberta, nicolò, nieti; gergo dei calderai della Val Cavargna nipa; gergo dei calderai della Val di Sole necia; gergo dei girovaghi padani neca; gergo del circo niba; gergo bolognese nibérta; gergo dei malviventi romani gnesa; gergo parmigiano nìcolo; gergo napoletano nisba; gergo palermitano nicci ecc. Anche nei gerghi europei il «no» si esprime allo stesso modo: argot francese nib, nif; gergo inglese nix; gergo spagnolo nexo;

 

  1. affermazione espressa con un termine parafono di sì (quindi termini con s iniziale): antico furbesco sedici, siena, sibo; gergo dei calderai della Val Cavargna sédes (letteralmente «sedici»); gergo dei ramai di Isili (Sardegna) sédic’; gergo dei calderai di Tramonti (Friuli) sédic’; gergo dei calderai di Dipignano (Cosenza) sidici; gergo degli spazzacamini di Gurro (Lago Maggiore) sèdes;

 

  1. uso massiccio di alcuni suffissi derivativi, che per la loro frequenza si possono definire «gergali»: soprattutto -oso (ad esempio fangose «scarpe»), poi -ume (come in pattume «letto»). -engo (come in fratengo «buono»). -aldo (come in ruffaldo «fuoco»); -ardo (come in bernardo «gatto»), -ante (come in raspante «pollo»);

 

  1. ricorso, complessivamente limitato, ma assai caratterizzante, alla deformazione meccanica delle parole: mediante suffissi deformanti (ad esempio altrera «altro»); mediante l’inserzione di r (ad esempio cospa e crospa «casa»); mediante scambio di fonemi (ad esempio crusca e trusca «elemosina»); mediante inversione delle sillabe o anagramma (ad esempio antefo «servo» da fante). Per questa via si può giungere a veri e propri gerghi artificiali, o meccanici, totalmente basati su procedimenti anagrammatici. Tali gerghi sono di uso assai limitato.

 

Il gergo non è parlato solo dagli «artisti» della «piazza», ma dall’intero complesso dei gruppi sociali marginali che ruotano attorno alla «piazza», che si muovono lungo le strade, gruppi sociali che chiamano se stessi, in gergo, con i nomi di bianti «quelli che vanno per via», calcanti «quelli che vanno per strada», scarpinanti «quelli che camminano», camminanti. Come abbiamo già visto, va respinto il luogo comune che vede nel bisogno di segretezza a fini illeciti la ragione dell’uso gergale. Il gergo non è una lingua oscura, lingua segreta, lingua occulta - come è stato spesso detto -, è semplicemente una lingua diversa. Il gergo va considerato come «una lingua di gruppo (piuttosto e prima che segreta) sotto l’aspetto sociale, e come formazione parassitaria sotto l’aspetto più propriamente linguistico», secondo la definizione di Marcel Cohen (Notes sur l’argot, in «Bulletin de la Société de Linguistique de Paris». XXI, 1919, pp. 132-147); il gergo è una lingua in cui si riconoscono, una lingua in cui si identificano determinati gruppi di individui (che abbiamo definito marginali) in opposizione alla parlata degli «altri» (i gagi).

Le due grandi categorie di gerganti sono gli ambulanti e i malviventi: da una parte abbiamo seggiolai, merciaioli, calderai, bottai, brentadori, ombrellai, arrotini, spazzacamini, muratori, facchini, cordai, mercanti di cavalli, saltimbanchi, fieranti, tutta gente che svolge lavori aleatori, stagionali. in molti casi superflui. A questi si possono unire i pastori dell’Italia settentrionale, che non sono ambulanti in senso proprio, ma sono entrati a far parte della vasta classe degli emarginati per la caratteristica sociologica dell’instabilità (vagabondaggio) e per la marginalità economica della loro attività, che tra l’altro si contrappone direttamente all’attività agricola.

Dall’altra parte abbiamo i ladri, i giocatori, le lingere (lavoratori girovaghi), cui si possono idealmente unire i mendicanti, i girovaghi, i vagabondi, che ne sono i «padri» storici.

Tutti questi gruppi si possono riportare alla classe dei marginali, determinata economicamente dall’esclusione dalla produzione. I marginali non sono inseriti nel sistema produttivo e vivono di espedienti. L’emarginazione economica è anche emarginazione sociale, che da oggettiva, consolidandosi, diventa soggettiva: una modalità ne è la delinquenza.

Oltre alla caratteristica fondamentale del non inserimento nel sistema produttivo, il marginale è caratterizzato storicamente (più in passato che oggi) dall’instabilità, dal vagabondaggio, dal nomadismo, evidente segno di emarginazione in una società basata sull’agricoltura e quindi stabilmente ancorata alla terra, che rappresenta il bene primario.

I vagabondi sono documentati fin dall’antichità: turbe di mendicanti e di falsi mendicanti che sorprendevano la religiosità e la buona fede delle popolazioni rurali; da sempre il contadino è la vittima e l’antagonista sociale del vagabondo.

La mendicità e il vagabondaggio, enormemente diffusi nel Medioevo, con vere e proprie «società» di vagabondi, strutturate come «doppi» della società normale, trovano sostegno e giustificazione nell’etica cristiana della beneficenza incondizionata, che procura la salvezza al benefattore (meccanismo con cui la società medievale mantiene in regime di assistenza enormi masse improduttive).

Nella società medievale i marginali (raggruppati sotto la denominazione di «poveri») avevano un loro posto istituzionale, garantito dalla Chiesa attraverso la pratica della carità: i poveri esistevano socialmente come oggetto della carità cristiana. «I furbi», scrive Piero Camporesi (Il libro dei vagabondi, Torino, 1973, p. XLVIII), «facevano affari d’oro: falsi questuanti, falsi ospedalieri, falsi eremiti, falsi predicatori e confessori, falsari di bolle e di lettere patenti, falsari di reliquie, falsi paralitici, falsi pellegrini (farfogli in gergo), falsi scopritori di tesori, falsi incantatori, falsi maestri d’arte, falsi ciechi, falsi muti, falsi ammalati, falsi indovini: arcatori, giuntatori, paltonieri, bianti, protobianti, calcanti, trucconi, guidoni, gaglioffi, bari, baroni, birboni, bricconi, compagnoni».

I vagabondi avevano circolazione internazionale (testimoniata sul piano linguistico dai numerosi punti di contatto esistenti fra i gerghi delle varie nazioni) e si saldavano a tutte le altre categorie di reietti e di emarginati (i malati, gli zingari, gli ebrei, i sodomiti).

Giuridicamente il vagabondo non è mai stato riconosciuto, poiché la società, che aveva come base produttiva l’agricoltura, difendeva come bene primario la stabilità: di qui le severe leggi contro i vagabondi e i forestieri. Il vagabondo non trova posto nel sistema di legami personali su cui si basa il feudalesimo, è un out-sider. L’unica istituzione che lo riconosce è la Chiesa.

La strada, l’ostello dei pellegrini, l’osteria («centro sociale», secondo la definizione dello storico Jacques Le Goff) sono i luoghi d’incontro e di relazione. I guadagni delle questue e degli imbrogli risultano spesso cospicui. In questa situazione si crea e si consolida l’ideologia del vagabondo, che ormai si contrappone a tutta la società. Recita una diffusa strofetta:

Con arte e con inganno si vive mezzo l’anno,

Con ingegno e con arte si vive l’altra parte.

L’ideologia del vagabondo è testimoniata dai termini gergali che sono penetrati nelle lingue europee: trucco, truffa, furbo, dritto, furfante, che è colui che possiede la furfa, in gergo «intelligenza».

Per gli ambulanti, che provengono nella quasi totalità dalla montagna, va fatto un discorso parzialmente diverso.

Nei secoli XV-XVII si colloca la gravissima crisi economica della montagna: abbiamo il progressivo decadere della sua importanza per i traffici, che si spostano sempre più sul mare; la crisi progressiva di alcune tradizionali industrie montane, come le industrie estrattive; infine abbiamo cause climatiche (come la cosiddetta «piccola glaciazione» del 1590) che abbassano notevolmente il limite delle colture: interi paesi scompaiono o sono ridotti alla fame, negli altri la povera agricoltura montana non basta a sfamare la popolazione.

Da questa situazione nasce una particolare forma di economia «doppia»: le donne restano in paese a coltivare i miseri campi e ad accudire il bestiame, mentre gli uomini si trasformano in ambulanti, cioè in emigranti stagionali, e vanno per le campagne e per le città a offrire i loro servizi, costituendo una sorta di terziario superfluo (in pratica si tratta in gran parte di soddisfare piccoli bisogni indotti).

Ogni valle si specializza in un mestiere: ad esempio le valli che tradizionalmente lavorano il ferro (e le cui miniere si sono esaurite o non sono più economiche) producono calderai.

Nell’età moderna le popolazioni marginali vengono ristrutturate, cambia la loro composizione rispetto a quelle medievali: ora ne fanno parte i sottoproletari, massa di manovra mobile, disponibile, sempre in bilico tra l’integrazione (il lavoro) e il rifiuto (l’entrare stabilmente nell’ «antisocietà» degli emarginati); i vagabondi «storici» (soprattutto ambulanti, saltimbanchi. mendicanti, truffatori), che per motivi psicologici e culturali si sono sottratti alla trasformazione in operai salariati; i malviventi (ladri, briganti), che sono una modalità del rifiuto.

Vediamo ora un esempio di gergo. Si tratta di un racconto autobiografico di Felice Bralla, calderaio ambulante di S. Nazzaro Val Cavargna (Como); la lingua di riferimento, su cui viene innestato il lessico gergale, è il dialetto locale (comasco di montagna). (Si noti che con ś, ź, si indicano s, z sonore - come in rośa, źona -, mentre con s, z si indicano i suoni sordi - come in sasso, azione -.)

Prima dla marmurìna del quindici-diciotto el nòs artüsc di ciapéra, andàum via dal stözi cun la trìda da una lòrda al’altra sénza di vòlta tru-à da rebàt un ciòd, sénza züfà una malàina dartàda.

’L prim stözi fàum el gir ad alta uchèla büsànd da una cròspa al’altra con una béltra trüsa difìcil da baì. La gnéva fòora una manìa o un bér, ciamàum sa i gh’à da baìi quaicòs o curentà.

A j n ghinàva da fagh el bag’ per ògni delèmpri e ghe ’l ghinàum.

Se ’l bag’ el ghe paréva marucà ghe ghinàum che la ślàfa l’è marenàda, spéce ’l curént e pö la śbòia.

Dòpu tarunàum un pò de cufén e gh’éum göza, pö tibàum en d’una caréra da pitòch e śbu-iàum un pò de stavèl lòfi de quel miga marenà e un mèź de gòten.

Nella traduzione segniamo tra parentesi, in nero, le parole gergali: il resto è tutto in dialetto locale, come del dialetto locale sono la grammatica e la veste fonetica.

Prima della guerra (marmurìna) del ’15-’18 il nostro mestiere (artüsc) di magnani (ciapéra), andavamo via dal paese (stözi) con la borsa dei ferri (trida) da una cascina (lòrda) all’altra senza delle volte combinare niente (tru-à da rebat un ciòd, letteralmente “trovare da ribattere un chiodo”), senza prendere (züfà) una lira (malàina) di guadagno (dartàda, letteralmente “guadagnata”).

Il primo paese (stözi) facevamo il giro ad alta voce (uchèla) bussando da una casa (cròspa) all’altra con una faccia (bèltra) sporca (trüsa) difficile da riconoscere (baì). Veniva fuori una donna (manìa) o un uomo (bér), domandavamo se hanno da riparare (baì) qualche cosa o stagnare (curentà).

Ci dicevano (ghinàva) di fare il prezzo (bag’) per ogni capo (delèmpri) e glielo dicevamo (ghinàum).

Se il prezzo (bag’) gli pareva caro (marucà), gli dicevamo (ghinàum) che la roba (ślafa) è cara (marenàda, letteralmente “salata”), specie lo stagno (curént) e poi il cibo (śbòia).

Dopo lavoravamo (tarunàum) un po’ di roba da aggiustare (cufén) e avevamo fame (göza), poi andavamo (tibàum) in un’osteria (caréra) da poveri (pitòch) e mangiavamo (śbu-iàum) un po’ di formaggio (stavèl) cattivo (lòfi) di quello non caro (marenà) e un mezzo [litro] di vino (gòten).

Riportiamo infine un elenco di parole gergali di ampia diffusione, con indicazioni etimologiche, ove possibile. Si noti che il lessico gergale copre ogni possibile ambito della vita umana, e si notino altresì i numerosi termini dotti presenti nel gergo (febo, sapienza, pecunia, alberto ecc. ).

Parole gergali di ampia diffusione
alberto, uovo, da albo bianco;

artone, pane, dal greco attraverso il gergo spagnolo; è presente anche nell’argot francese arton;

baita, casa, probabilmente voce alpina diffusa dagli ambulanti;

balcare, guardare, da balchi occhi, letteralmente balconi, finestre;

ballerino, cavallo;

balordo, pazzo e anche malvivente;

balòs, furbo, birbante, furfante;

berna, bernarda nera;

berta, tasca;

bianca, neve, per il colore;

biricchino, anticamente significava assassino, brigante;

bisto, pisto, bistolfo prete;

bogo, orologio;

bolla, città;

bruna, notte, letteralmente scura;

buscare, cercare, questuare, procacciarsi;

cacagna, gallina, voce zingara;

calca, strada, da calcare camminare;

caldi, attento, attenzione;

camuffare, capire;

chiarire, bere, anche piovere, anche orinare;

chiaro, giorno, sole, anche vino;

cispa, sterco;

collegio, prigione;

cornute, vacche, anche nell’argot francese

cornant, bue;

cuccare, prendere;

drago, bravo, abile;

fangose, scarpe, da fango;

febo, sole;

gagio, estraneo, non appartenente al mondo dei gerganti, dei marginali, voce zingara che significa non zingaro;

galma, minestra;

garolfo, cane, anticamente gatto (letteralmente significa lupo mannaro);

primo, vecchio, grima vecchia;

grinfia, sgrinfia mano;

improso, imbroglio, da proso sedere;

lenza, lenza acqua;

loffio, brutto, cattivo, di poco valore;

longhino, anno, da lungo;

lumare, vedere, guardare, da lume;

maggio, grande, da maggiore;

mania donna, moglie;

morfire, smorfire mangiare e anche suonare, da morfia bocca; è presente anche nell’argot francese morfier, mangiare;

pacco, paccaglino luogo, paese, anche nell’argot francese paquelin;

pattume, letto, probabilmente dall’abitudine di dormire sui rifiuti;

pecunia, soldi;

pila, denaro;

piòla, osteria;

pivello, ragazzo;

polegio, letto;

polverosa, farina, da polvere;

puffo, buffo debito;

raspante, ruspante pollo, da raspare, ruspare;

ruffo, ruffaldo fuoco, letteralmente rosso;

Sant’Alto Dio;

sapienza, sale;

saraffo, zaraffo compare, complice;

sbertire, morire;

sbobba, minestra;

sboia, cibo, minestra;

sbolognare, vendere;

scabbio, vino, scabbiare bere, scabbiosa osteria;

scaffo, scalfo bicchiere;

scarpa, borsaiolo;

stapire, mangiare;

tarocà, parlare, taròch gergo, taròn gergo;

tartire, letteralmente fare una torta;

togo, bello, buono (il contrario di loffio);

vasco, ricco;

verdosa, verdolina insalata;

zurlo, prete.