Curcio Medie

Guerra combattuta tra le maggiori potenze mondiali dal 1939 al 1945.

Problemi precedenti. Per le gravi richieste della Francia, nella pace di Versailles prevalse il punto di vista anglo-americano, più rispettoso dell’integrità territoriale della Germania, alla quale implicitamente si assegnò la funzione di far da contrappeso all’eccessiva potenza francese, conforme alla secolare politica britannica, intesa a promuover da capo, in ogni nuova situazione, l’equilibrio delle forze continentali.
Ma la rinnovata vitalità politica ed economica, consentita al popolo tedesco da questa relativa clemenza, fu strumentalizzata ai fini di quella sistematica opera di spoliazione in cui si risolsero le esorbitanti riparazioni di guerra, addossate alla Germania sulla base della forzata ammissione della propria responsabilità nello scoppio del conflitto (art. 231). Inoltre, la disgregazione dell’Impero austro-ungarico non pose fine ai contrasti etnici e ai problemi delle minoranze, che travagliarono ancora l’Europa centrale e balcanica.
L’isolamento dell’URSS, il malcontento italiano per gli scarsi frutti della vittoria, la scarsa coesione tra le principali potenze occidentali, dovuta in gran parte all’atteggiamento degli USA, che non ratificarono la pace di Versailles, non aderirono alla Società delle Nazioni e rifiutarono alla Francia la garanzia di un’alleanza militare, minarono d’altronde il consolidamento di questo imperfetto assetto internazionale, infondendo, sia tra i vincitori che tra i vinti, una sensazione di precarietà. Come, prima e durante la guerra, aveva fallito la solidarietà pacifista dei partiti operai e dei cattolici, così, nel dopoguerra, l’idealismo democratico non riuscì a dar concretezza alla sua etica internazionale, che avrebbe avuto bisogno di saldi vincoli federativi nell’ambito della Società delle Nazioni o in quello europeistico. La ricerca della sicurezza si spostò allora verso le soluzioni nazionalistiche, che all’interno di vari Stati minori, travagliati dai contrasti sociali, assunsero i connotati del totalitarismo, sotto l’influenza del modello fascista italiano.
L’Italia, inoltre, inserì le sue rivendicazioni in un generale programma di revisione dei trattati di pace, in diretto contrasto con il rigido atteggiamento antirevisionistico della Piccola Intesa (Iugoslavia, Cecoslovacchia e Romania) e della Francia. Quest’ultima, lamentando le inadempienze tedesche, aveva proceduto, insieme con il Belgio, all’occupazione armata della Ruhr (gennaio 1923), acuendo con ciò il contrasto con l’Inghilterra ed esasperando la Germania, dove l’inflazione, portata alle ultime conseguenze per imporre moratorie ai vincitori, spingeva alla disperazione e alienava dalla democrazia di Weimar i ceti borghesi, sospingendoli agli estremi dello schieramento politico. Resa vana l’occupazione della Ruhr dalla resistenza passiva delle maestranze e represso il tentativo di eversione fatto da Hitler a Monaco (8-9 novembre 1923), la situazione si chiarì, grazie soprattutto all’opera di due statisti, G. Stresemann e A. Briand, che realizzarono un clima di distensione tra la Francia e la Germania.
È in questo clima che il piano Dawes, sostituito poi dal piano Young, impostò con realismo il problema delle riparazioni, e, con il Patto di Locarno (1925), la Germania ritrovò la sua dignità di potenza in un’Europa più fiduciosa. Ma, una volta sistemate le questioni relative alla zona renana e avviata la soluzione del grave problema delle riparazioni, i Tedeschi, riabilitati nel consesso internazionale con l’ingresso nella Società delle Nazioni (settembre 1926), accentuarono la agitazione per la rettifica del confine orientale e la congiunzione con la parte della Prussia tagliata fuori dal resto del paese. Di qui l’attrito con la Polonia, la quale, scontratasi già militarmente con l’URSS e tuttora in latente dissidio con essa, veniva a trovarsi, per l’avvenire, tra due fuochi. Comunque con il Patto Kellog (giugno 1928), le varie potenze s’impegnarono a rinunciare alla guerra, e nella Conferenza dell’Aia (agosto 1929) si decise lo sgombero anticipato della Renania, in connessione con l’organico regolamento circa l’entità e le modalità delle riparazioni, contenuto nel piano Young, che liberò la Germania dai controlli finanziari.
Intorno al 1930, una sostanziale revisione aveva dunque mitigato il rigore della pace di Versailles e la crisi economica mondiale di quegli anni, determinando generali agevolazioni ai paesi debitori, condusse all’accordo di Losanna (luglio 1932), con cui si ridussero notevolmente i pagamenti tedeschi. Ma la stessa crisi economica rafforzava frattanto in Germania le correnti di destra, tra le quali conseguì larga popolarità il Partito nazionalsocialista di Hitler. Con l’avvento di questo al potere (1933), la tensione ideologica nazionalistica e la programmatica aggressività nei rapporti internazionali divennero il criterio ispiratore della politica estera tedesca, in accordo con gli sforzi per la creazione di un’efficiente economia di guerra: posta la lontana finalità nella conquista di uno « spazio vitale» al centro e nell’oriente d’Europa in continuità territoriale con la metropoli germanica, la premessa era di liberare questa da ogni vincolo e limitazione derivante dal Trattato di Versailles.
Prima esigenza di tale politica fu la parità degli armamenti, chiesta a Ginevra; al rifiuto francese seguì il ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni (ottobre 1933). Quindi, dopo il tentativo di annettere l’Austria, esperito con lo assassinio di Dolfuss nel 1934, l’anno seguente fu annunciato il riarmo tedesco, con la conseguenza di avvicinare stabilmente l’Inghilterra e la Francia, e provvisoriamente queste due potenze all’Italia (fronte di Stresa) e la Francia alla Russia, che era entrata a far parte della Società delle Nazioni. L’Italia, messo da parte, di fronte al pericolo di una forte Germania ai confini, il suo revisionismo, cercò di cogliere in Africa i vantaggi della conciliazione con la Francia e della perdurante amicizia con l’Inghilterra, avanzando pretese sull’Etiopia. Ma, a parte il contrasto di interessi con le altre potenze coloniali, l’iniziativa italiana, essendo rivolta contro un paese membro della Società delle Nazioni, si presentò come una minaccia alla sicurezza collettiva, già compromessa dall’impresa giapponese in Manciuria (1931-1932) e fu quindi condannata da quel consesso. La crisi etiopica dissolse altresì il fronte di Stresa, nel quale già la Germania aveva cercato di far breccia mediante un accordo con l’Inghilterra, fissante il rapporto di forze navali tra i due paesi (giugno 1935); quindi, liberato dalla minaccia di una triplice intesa antitedesca, Hitler procedette alla rimilitarizzazione della Renania (1936) e alla costruzione della «linea Sigfrido », finché il comune intervento nella guerra civile spagnola avviò l’incontro con l’Italia, sulla base dell’affinità ideologica dei due regimi, il nazista e il fascista.
Altro decisivo passo per la fine dell’isolamento tedesco e la formazione delle alleanze operanti nella g. fu il patto Antikomintern, stretto con il Giappone (novembre 1936). Ma nei tre anni che intercorsero da allora all’inizio delle ostilità, l’espansione tedesca ebbe modo di attuarsi anche attraverso altri successi diplomatici: il 12 marzo 1938, con il tacito consenso britannico, la Germania procedette, infatti, all’annessione dell’Austria, e con la conferenza di Monaco (20-30 settembre 1938) ottenne via libera per l’occupazione dei Sudeti, primo passo per la demolizione dello Stato cecoslovacco; voltasi, quindi, senza soluzione di continuità, all’oriente europeo ottenne, con il trattato tedesco-lituano del 22 marzo 1939, la cessione della città e del territorio di Memel, e in aprile, mentre l’Italia occupava l’Albania, a Berlino si cominciò a preparare l’attacco alla Polonia, che opponeva maggior resistenza alle richieste avanzatele, concernenti dapprima la restituzione di Danzica e la costruzione di un’autostrada nel corridoio, poi la cessione di quest’ultimo.
Hitler e i suoi collaboratori, consapevoli che l’attacco alla Polonia avrebbe potuto determinare una guerra europea e memori altresì delle rovinose difficoltà in cui il loro paese s’era trovato nella prima guerra mondiale, dovendo combattere su due fronti, decisero di stipulare preventivamente un accordo con l’URSS, giungendo nei giorni 23-24 agosto 1939 alla firma di un patto di non aggressione, integrato da un protocollo aggiuntivo per la spartizione della Polonia in due zone d’influenza. Il trattato tranquillizzò i Sovietici, preoccupati della formazione di un blocco capitalistico ai loro danni, e nel tempo stesso sciolse ogni residuo dubbio del Führer circa l’opportunità di dar inizio ai suoi propositi di conquista: con le spalle sicure a oriente, egli pose a salvaguardia dei confini occidentali la linea Sigfrido e il 1° settembre attaccò la Polonia.
Da parte britannica e francese, durante i mesi di preludio alla guerra (aprile-agosto), oltre a dar formali garanzie di difesa alla Polonia e ai paesi balcanici, ci si approntò militarmente: in Inghilterra il passo decisivo fu la coscrizione obbligatoria, in Francia il grande sforzo tecnico e finanziario per il rafforzamento dell’arma aerea, cosicché il 3 settembre, due giorni dopo l’attacco tedesco alla Polonia, le due grandi potenze occidentali dichiararono guerra alla Germania.

L’attacco alla Polonia. Le operazioni tedesche, condotte sotto il comando del generale W. Brauchitsch, furono oltremodo rapide: contro il modesto e male organizzato esercito polacco, si allinearono ben settanta divisioni, comprendenti 1.200.000 uomini (circa i 3/4 dell’esercito tedesco), le quali procedettero alla penetrazione nel paese e alla sua conquista per via di accerchiamenti a tenaglia. La resistenza polacca fu resa vana dalla lunga estensione del fronte di guerra, mancante di barriere naturali, e dalla carenza di una ossatura industriale che potesse sostenerla, dimodoché, alla metà di settembre, alle residue forze polacche non restava che cercar di protrarre la lotta portandosi nella zona d’influenza sovietica.
Ma, a questo punto, von Ribbentrop, per stroncare ogni loro possibilità di ripresa, sollecitò l’intervento armato dell’URSS, che avvenne il giorno 15 e portò alla duplice occupazione militare del paese, determinandone, entro la fine del mese, il crollo completo. Mentre l’URSS condusse, poi, un’azione espansiva sul Baltico, mediante trattati con la Lettonia, la Lituania e l’Estonia e l’attacco alla Finlandia (26 novembre), Hitler avanzò proposte di pace all’Inghilterra e alla Francia, chiedendo il riconoscimento dei fatti compiuti e l’apertura di negoziati per ottenere compensi coloniali (discorso tenuto a Berlino il 6 ottobre).

La sconfitta della Francia. Avendo Chamberlain e Daladier rifiutato tali condizioni, che avrebbero lasciato buona parte d’Europa all’arbitrio della Germania, questa s’accinse a un razionale sfruttamento d’ogni possibile risorsa dei territori e dei popoli caduti in suo dominio, nel quadro di una rigida economia di guerra. Dopo mesi di attività di pattuglie, nell’aprile 1940, la Germania iniziava una grande offensiva con le campagne contro la Danimarca e la Norvegia e, nel maggio, con l’attacco all’Olanda, al Belgio, al Lussemburgo e il contemporaneo sfondamento, avvenuto in tre giorni, dal 10 al 13, delle difese francesi tra Namur e Sedan, dove non giungeva la linea Maginot.
Nei giorni seguenti, mentre Pétain veniva nominato vicepresidente del gabinetto Reynaud e Weygand subentrava a Gamelin nel comando supremo, i Tedeschi avanzavano in direzione della Manica, separando dal resto della Francia i reparti anglo-franco-belgi operanti nelle Fiandre (21 maggio). L’esercito belga capitolò il 28 maggio, l’armata inglese si mise in salvo imbarcandosi a Dunkerque (3 giugno) e il nuovo schieramento difensivo di Weygand crollò su tutta la linea con le battaglie della Somme e dell’Aisne (6-10 giugno). A questo punto, aggravatasi ulteriormente la situazione francese per l’intervento italiano, Reynaud pensò di trasferire governo e parlamento in Algeria, ma, essendo prevalsa l’opinione di Weygand e Pétain (divenuto presidente del Consiglio), si giunse all’armistizio con la Germania (Rhetondes, 22 giugno) e con l’Italia (Villa Incisa, 24 giugno).

L’intervento italiano. L’Italia, essendosi riservata, nel concludere il Patto d’Acciaio (alleanza italo-tedesca, firmata a Berlino il 22 maggio 1939), un periodo di tre anni per la propria preparazione, poté, all’inizio delle ostilità, dichiararsi «non belligerante», né da parte tedesca vi furono pressioni per l’immediato intervento, che avrebbe creato nuovi fronti di guerra, sui quali l’efficienza dell’Asse sarebbe stata più problematica. Inoltre, nella sua prospettiva diplomatica, Hitler considerava la neutralità italiana come una porta aperta per accedere a quella pace fondata sull’egemonia tedesca e sul riconoscimento dei fatti compiuti, cui egli sperava di poter indurre i suoi nemici.
La Germania, nello stesso tempo, stringeva i legami con l’alleata per impedire quell’allentamento, che era nei voti di vasti settori della compressa opinione pubblica italiana e di una parte degli stessi dirigenti fascisti. L’Inghilterra, minacciando il fermo delle navi con carico di carbone tedesco, offrì all’Italia di sostituirsi alla Germania come fornitrice di tale materia prima e come importatrice di prodotti ortofrutticoli, e da parte statunitense si inviò Sumner Walles, incaricato di Roosevelt, in missione presso il governo italiano, che, da parte sua, diede qualche speranza per il mantenimento della pace. Ma a questa politica cauta e ondeggiante misero fine i decisivi successi conseguiti dai Tedeschi nei mesi di aprile e maggio 1940, che spostarono a vantaggio della Germania l’equilibrio interno dell’alleanza italo-tedesca, cosicché il 10 grugno, in coincidenza con il crollo francese, l’Italia entrò in guerra a fianco della Germania.
Esaurite rapidamente, non senza un senso di disagio per dover combattere un nemico già vinto, le operazioni contro i Francesi sulle Alpi occidentali. (21-23 giugno), gli Italiani condussero la guerra in Africa orientale, in Africa settentrionale e nel Mediterraneo. In Africa orientale, grazie alla netta superiorità iniziale, conseguirono notevoli successi (dalla parte del Sudan con l’occupazione di Gallabat e di Cassala, 4 luglio; nel Kenya, occupazione di Moyale, 11 luglio; conquista della Somalia brit., 3-19 agosto).
In Africa settentrionale, dopo un periodo di preparazione, caratterizzato dall’intensa attività aerea, sotto il comando del maresciallo R. Graziani, succeduto a I. Balbo, oltrepassarono la frontiera egiziana, raggiungendo Sidi El Barrani (15 settembre) e avanzando ancora per circa 50 km (ottobre-novembre). Nel Mediterraneo, gli Italiani affermarono il loro controllo al centro e gli Inglesi alle due estremità, ma, a parte questa distribuzione dei punti di forza, l’Inghilterra godette fin dall’inizio di una maggiore disponibilità di mezzi, soprattutto per quanto riguardava le corazzate, e dello stretto collegamento tra azione aerea e navale, mediante l’opera dell’aviazione marittima, cui l’Italia, fidando nella ristrettezza dei teatri d’operazione e nella vicinanza delle basi costiere, non aveva provveduto. La gravità di tali carenze emerse nelle battaglie di Punta Stilo (8-9 luglio), di Capo Spada (19 luglio), di Capo Teulada (27 novembre) e soprattutto in quella di Capo Matapan (27-28 marzo 1941), dove si aggiunse il disastroso effetto del radar adoperato dagli Inglesi.

La battaglia aerea d’Inghilterra. Frattanto i Tedeschi, dopo lo armistizio francese, decisero l’invasione della Gran Bretagna; alla base del piano Leone Marino, elaborato a tale scopo da Hitler e dal generale A. Jodl, era una realistica e per certi aspetti anche eccessiva valutazione delle difficoltà che si sarebbero incontrate: venne, perciò, giudicato indispensabile il preliminare dominio aereo sulla Manica, in modo da consentire, malgrado l’inferiorità navale tedesca, il trasporto di un attrezzatissimo esercito d’invasione. Nell’offensiva, iniziata l’8 agosto 1940, vennero impiegati ben 2.669 aerei, assai più di quanti ne possedeva la RAF, in compenso meglio dotata qualitativamente e avvantaggiata dall’impiego del radar; il sistema di radio-localizzazione permise infatti all’aviazione britannica di individuare a distanza, mediante venti stazioni, l’entità e la posizione delle squadriglie attaccanti, rimediando quindi all’inferiorità numerica con la pronta distribuzione dei velivoli nel luogo e nel momento in cui era necessaria la loro presenza per il contrattacco. Già a una settimana dall’inizio dell’operazione, si palesò l’insufficienza dei bombardieri tedeschi, privi di una lunga autonomia di volo, nel condurre prolungati attacchi al di là di una certa latitudine.
Dopo un mese, la Luftwaffe, vedendosi ancora lontana dall’annientamento della R.A.F., mutò indirizzo strategico, intensificando sistematicamente, a partire dal 7 settembre e per quasi due mesi consecutivi, il martellamento di Londra, in modo da paralizzare nel suo centro nevralgico l’economia del nemico e di deprimerne il morale. Ma la forza distruttrice degli attaccanti si spuntò contro il coraggioso comportamento della popolazione londinese, la quale, sopportando il maggior peso della guerra, consentì al resto della nazione e al governo di W. Churchill (salito al potere il 10 maggio 1940), di reintegrare e perfezionare l’apparato difensivo. Il 12 ottobre, Hitler annunciò ai suoi il rinvio dell’operazione Leone Marino, e nel corso del novembre le incursioni, costate ai Tedeschi notevoli perdite, si spostarono da Londra verso i centri minori, diminuendo nel contempo d’intensità.

La guerra in Africa. Venuta meno l’immediata minaccia d’invasione, continuarono per l’Inghilterra le difficoltà della duplice guerra sul mare, nell’Atlantico contro i Tedeschi, che lanciarono la grande offensiva sottomarina, e nel Mediterraneo contro gli Italiani, i quali, dopo aver avuto gravi perdite nell’attacco subito a Taranto, nel corso del 1941 conseguirono successi nella baia di Suda (26 marzo: affondamento dell’incrociatore York, di una petroliera da 20.000 tonnellate e altre unità), a Gibilterra (fine anno: affondamento di cinque piroscafi), ad Alessandria (18 dicembre: forti danni alle corazzate Valiant e Queen Elizabeth). Ma sui due fronti di guerra africani si svolse la controffensiva britannica: irreversibile in Africa orientale, dove le truppe italiane, quantunque superiori di numero, erano irreparabilmente isolate e, male armate; riuscita oltre ogni previsione in Africa settentrionale, ma in seguito arrestata dall’intervento tedesco, che rovesciò il rapporto di forze.
Il generale A. P. Wavell, posto al comando dell’armata inglese in Egitto, sferrò l’offensiva l’8 dicembre 1940, obbligando le truppe italiane a ripiegare verso la Sirte, grazie alla superiorità tecnica dei suoi mezzi, tra cui l’unica divisione corazzata di cui disponesse l’Inghilterra dopo Dunkerque. Essendo cadute successivamente Bardia, Tobruk, Bengasi, Hitler insieme ai capi militari tedeschi, decise d’intervenire in Libia (piano Girasole) con l’invio dell’Africa Korps, composto di divisioni corazzate e motorizzate e accompagnato da un forte nucleo aereo, agli ordini del gen. E. J. Rommel. Il 21 marzo 1941 cadde ancora in mano agli Inglesi il presidio di Giarabub nel Deserto libico, dopo aver resistito isolato per quattro mesi; ma sulla costa, una settimana dopo, cominciò il contrattacco italo-tedesco, che portò entro la prima decade di aprile alla rioccupazione di tutta la Cirenaica, salvo Tobruk.

Penetrazione dell’Asse nella penisola balcanica. Le potenze dell’Asse, fallita l’invasione dell’Inghilterra, si resero conto dell’inevitabile estensione del conflitto nel tempo e nello spazio. In considerazione di ciò allargarono le loro alleanze, concludendo il Patto Tripartito con il Giappone (Berlino, 27 settembre 1940), rendendo più stretti i rapporti con il regime di Vichy (incontro di Hitler con Pétain e Laval a Montoire, 24 ottobre), chiedendo, sia pure senza risultati, la collaborazione militare spagnola (missione Canaris), operando, infine, una continua e massiccia penetrazione diplomatica nella penisola balcanica, specialmente in funzione antisovietica.
Aderirono così al Tripartito, nel novembre 1940, l’Ungheria e la Romania; nel marzo 1941, la Bulgaria e la Iugoslavia. Quest’ultima, però, sottraendosi con un colpo di stato (27 marzo) alla tutela delle forze dell’Asse, firmò il 4 aprile un patto di non aggressione con l’URSS. Seguì immediatamente la reazione tedesca, con l’occupazione militare dell’intero territorio iugoslavo, alla quale concorsero la Bulgaria e l’Ungheria, premiate con compensi territoriali; all’Italia venne assegnata la costa dalmata insieme al protettorato sul Montenegro; la Slovenia fu posta sotto il condominio dell’Asse e in Croazia si costituì uno Stato indipendente sotto il Poglavnik (duce) Ante Pavelic. Demolita e controllata la Iugoslavia, le forze tedesche passarono in Grecia, dove dal 28 ottobre 1940 l’Italia s’era impegnata in una difficile guerra, decisa da Mussolini per controbilanciare l’occupazione tedesca, aperta o larvata, dei paesi balcanici aderenti al Tripartito. La resistenza dell’esercito greco, efficacemente condotta contro gli Italiani, venne meno dopo l’intervento tedesco.

Berlino e Mosca: dal patto all’aggressione. Il patto tedesco-sovietico dell’agosto 1939 era stato concepito da entrambe le parti come spregiudicato espediente in funzione della propria sicurezza e potenza, sullo sfondo di una drammatica contrapposizione ideologica ed etnica (nazionalsocialismo contro bolscevismo, pretesa di superiorità germanica sulla razza slava). L’URSS seppe abilmente sfruttare l’effimera alleanza, ricavandone tutti i possibili vantaggi, con la riacquisizione dei vecchi confini a nord e a sud-ovest, da cui era retrocessa nei momenti critici che seguirono la Rivoluzione. Al di là ancora di tali confini, l’URSS attaccò la Finlandia e compì un’opera di penetrazione nei paesi balcanici in sotterraneo duello con la diplomazia tedesca, duello culminato nella dura reazione hitleriana contro la Iugoslavia.
La Germania, mentre teneva accortamente agganciata l’URSS con un trattamento da grande potenza associata nei piani di spartizione mondiale, offrendole la prospettiva di ingrandire la sua sfera d’influenza, possibilmente in Asia a spese dell’Inghilterra (invito di Molotov a Berlino e memorandum segreto del 13 novembre 1940), nel contempo meditava il piano d’aggressione, che prese il nome di operazione Barbarossa. Poiché il timore più grande dei Tedeschi era di dover combattere su due fronti, a est e a ovest, si scelse per l’attacco a est il momento, ritenuto propizio, in cui, piegati gli avversari terrestri occidentali, si poteva profittar dell’indugio statunitense nell’intervenire a sostegno dell’Inghilterra, in modo da aver di nuovo le mani libere, dopo aver liquidato l’URSS, per affrontare il gigante d’oltre Atlantico. Perciò, si accelerarono i tempi e, data nel febbraio 1941 la definitiva sanzione all’operazione Barbarossa, si fissò l’attacco per maggio, ritardandolo poi al 22 giugno, a causa delle campagne in Iugoslavia e in Grecia.
Furono scagliate contro l’URSS ben 190 divisioni, di cui 17 corazzate e 10 motorizzate, divise in tre gruppi d’armate: a nord, lungo la frontiera lituano-tedesca, si mise in moto quello di veri Loeb; al centro, lungo la linea di divisione russo-tedesca in Polonia, quello di veri Bock; a S, lungo la frontiera galiziana-ungherese-romena, il gruppo d’armate di veri Rundstedt. L’aviazione, ugualmente ripartita in tre grandi gruppi, forte complessivamente di 6.000 aerei, precedette l’avanzata delle forze terrestri. Si aggiunsero i notevoli contributi degli altri paesi dell’Asse, tra cui il corpo di spedizione italiano.
Di fronte a tale imponente apparato offensivo, l’esercito sovietico, pur dotato di ingenti mezzi, si trovò in condizioni di netta inferiorità: infatti, neppure esso era pervenuto a realizzare quella strategia autonoma dei mezzi blindati, con unità corazzate di varie dimensioni, comprendenti tutti i possibili servizi che erano il primo segreto dell’impeto militare tedesco. Stalin, inoltre, aveva ritenuto l’attacco più lontano nel tempo, non prestando ascolto alle informazioni dei servizi segreti, nelle quali scorgeva esagerazioni e inganni di fonte occidentale, intesi a precipitare l’URSS in un disastroso scontro con la Germania nazista. Ebbe, infine, parte nel gioco hitleriano, l’inganno indirettamente teso al capo sovietico con il tenere all’oscuro della preparata aggressione il governo giapponese, che, nell’aprile 1941, in buona fede e pensando alla propria sicurezza, concludeva un patto di amicizia e non aggressione con l’URSS, illudendola sulle intenzioni dell’intero Tripartito.
La fiducia di Hitler di poter determinare, con l’impiego della maggior parte delle sue forze, il rapido crollo dell’URSS, parve giustificata dall’andamento dei primi combattimenti, che costarono al suo nemico, in soli 10 giorni, la distruzione di 7.000 carri armati, 6.000 aerei e la cattura di 324.000 uomini e di migliaia di cannoni, cosicché, già alla prima metà di luglio, veniva raggiunta, dopo un’avanzata di circa 400 km, la linea Stalin (Pskov-Vitebsk-Moghilev-Gomel-Kiev), il cui primo sistema difensivo veniva poi sfondato in agosto. In settembre i Tedeschi posero l’assedio a Leningrado e occuparono Kiev. Ma, nonostante i gravissimi smacchi e la perdita di ricche regioni agricole e minerarie, l’esercito e i popoli dell’URSS rivelarono grande vitalità e tenacia, spostando a est gli apparati produttivi, eliminando o danneggiando le fonti economiche delle zone abbandonate, sviluppando la lotta partigiana nelle retrovie dei Tedeschi.
Inoltre, i complessi difensivi della linea Stalin, pur cedendo, ritardarono l’avanzata nazista verso Mosca fino all’inizio dei grandi freddi. Giunti, dunque, agli ultimi di ottobre nei pressi della capitale, i Tedeschi sferrarono l’attacco contro di essa il 15 novembre, avvolgendola a tenaglia; ma dopo 20 giorni di tremenda pressione, le forze degli attaccanti (51 divisioni, 1.500 carri armati, 3.300 cannoni e 600 aerei) erano in gran parte disfatte e la battaglia di Mosca si concludeva con il successo dei difensori sovietici. Questi passavano, quindi, alla controffensiva, con il decisivo vantaggio di aver nel frattempo individuato l’elemento di debolezza del metodo di guerra tedesco, consistente nell’esistenza di un vuoto tra l’azione dei carri armati, incuneati nel profondo del dispositivo nemico, e il successivo rastrellamento a opera delle fanterie; proprio in questo vuoto, dove prima si consumava il loro disastro, i Sovietici presero ad attuare sistematicamente il loro urto controffensivo puntando con fiducia i loro mezzi blindati contro le fanterie e obbligando di conseguenza i carri armati tedeschi a tornare indietro.

L’attacco giapponese a Pearl Harbor. Resosi così esteso il conflitto e dubbio il suo esito, i belligeranti europei presero a sollecitare, nel corso del 1941, l’intervento dei rispettivi alleati extraeuropei, cioè il Giappone e gli USA, venuti frattanto in contrasto tra loro a causa della Cina, che il primo aveva aggredito fin dal 1937 e gli Usa sostenevano con aiuti. Per tagliar la via a questi, i Giapponesi, nel 1940, s’insediarono nell’Indocina, aperta loro dalla Francia di Vichy, succube degli alleati tedeschi, e legarono a sé la Thailandia. Altro obiettivo della marcia giapponese verso sud fu l’Indonesia, resa loro accessibile dalla caduta dell’Olanda sotto il dominio tedesco, dimodoché l’espansionismo germanico in Europa e quello nipponico in Asia si dimostrarono complementari, con l’effetto di consolidare l’alleanza.
Nell’ottobre, il governo tendenzialmente pacifista del principe F. Konoye venne sostituito da quello del generale H. Tojo, composto per metà di militari e volto alla realizzazione dei piani per il predominio giapponese nel Pacifico. Continuarono peraltro le trattative con il governo degli USA, per indurlo a sospendere gli aiuti a Chiang-Kai-shek e a revocare una disposizione, data il 26 luglio, che aveva congelato i crediti giapponesi negli USA e fatto cessare le spedizioni di petrolio dai porti statunitensi.
Di fronte al fermo atteggiamento di Roosevelt e del segretario di Stato C. Hull, i quali chiesero, a loro volta, il ritiro di tutte le forze giapponesi dalla Cina e dall’Indocina (26 novembre 1941), a Tokyo si decise di attaccare, adottando una versione giapponese della guerra-lampo. Questa, ideata dall’ammiraglio Yamamoto, consistette nella sorpresa del 7 dicembre 1941 contro la flotta degli USA ancorata a Pearl Harbor nelle Hawaii, senza alcuna dichiarazione di guerra. L’effetto dell’azione, compiuta in poco più di due ore, con perfetto sincronismo di movimenti tra le forze aeree, navali e sottomarine, fu disastroso per gli USA, che si videro metter fuori combattimento le otto corazzate presenti nella baia, tre incrociatori, tre cacciatorpediniere, 150 apparecchi della marina e un centinaio di quelli dell’esercito. Tre giorni dopo, davanti a Capo Kuantan, sulla costa orientale della Malesia, aerosiluranti e bombardieri giapponesi affondarono due navi di linea inglesi, la Repulse e la Prince of Wales.
In conseguenza di tali successi, il Giappone si assicurò il controllo di tutto il Pacifico centro-occidentale e dei mari interni, cosicché nel gennaio 1942 poté agevolmente invadere l’Indonesia, in febbraio Singapore e nel marzo la Nuova Guinea, venendo in possesso di enormi ricchezze per alimentare la propria azione offensiva su altri teatri d’operazione. Pure all’inizio del 1942, in collaborazione con un esercito clandestino di nazionalisti indigeni, i Giapponesi iniziarono l’occupazione della Birmania ed entrarono nella capitale delle Filippine, dove erano sbarcati subito dopo Pearl Harbor.
Frattanto, l’11 dicembre 1941, l’Italia e la Germania dichiararono guerra agli USA, i quali, già praticamente belligeranti nell’Atlantico fin dal principio dell’autunno, fusero direttive e risorse con i loro alleati. Churchill e Roosevelt, che già nell’agosto 1941 si erano incontrati, enunciando i principi della Carta Atlantica, tornarono a riunirsi nella conferenza di Washington (22 dicembre 1941 - 14 gennaio 1942), dove si stabilì la priorità dello sforzo bellico contro la Germania e l’impostazione meramente difensiva per una prima fase della guerra nel Pacifico.
Tale fase si concluse con la battaglia del mar dei Coralli (6-8 maggio 1942), con la quale gli USA impedirono alle forze navali giapponesi di occupare Porto Moresby sulla costa meridionale, della Nuova Guinea, da dove avrebbero in seguito potuto balzare all’attacco dell’Australia. Un mese dopo (4-6 giugno 1942), un convoglio giapponese diretto verso la base navale di Midway (atollo delle Hawaii), venne attaccato da mezzi statunitensi e, nonostante fosse nettamente superiore, perse le sue quattro portaerei e dovette desistere dall’operazione. In questa battaglia s’impose, infatti, la strategia statunitense, che dava all’arma aerea un ruolo preponderante, strettamente associandola alla marina. Gli USA, a questo scopo, avevano dato grande impulso alla costruzione delle portaerei, come del resto a ogni ramo dell’industria bellica, rifornendo in misura larghissima gli alleati.

La battaglia di Stalingrado. Fallito, nel dicembre 1941, il tentativo di occupare Mosca, l’offensiva tedesca riprese in forze nella primavera del 1942, concentrandosi soprattutto nella Russia meridionale, dove le armate di von Manstein investirono la penisola di Kerc. Nell’impostazione dell’attacco, il comando tedesco provvide anzitutto a colmare quella lacuna tra l’azione di rottura dei carri e l’azione di rastrellamento delle fanterie, in cui s’era inserita con successo la resistenza sovietica.
A tale scopo si ristrutturò la divisione blindata, rafforzando la presenza in prima linea della fanteria e facendola muovere su mezzi cingolati, in modo da realizzare la massima concomitanza tra la sua azione e quella dei carri armati, dei quali si diminuì il numero e si aumentò il peso e l’efficienza, per conferir maggiore agilità alle unità corazzate. Le truppe del maresciallo Timoscenko, che cercarono di contrattaccare nella regione di Kharkov, vennero sconfitte dall’azione convergente di von Kleist da sud e di von Paulus da nord. Seguì a opera delle forze di von Manstein, dopo un lungo assedio, la conquista della piazzaforte di Sebastopoli, il massimo porto del mar Nero (2 luglio 1942); contemporaneamente si svolse l’offensiva contro Voronez, da dove i Tedeschi volevano aprirsi la via diretta per Mosca, ma questa rimase loro preclusa grazie all’accanita resistenza dei Sovietici. L’offensiva dovette quindi svilupparsi in direzione sud-est, nella grande ansa del Don, alla cui estremità meridionale, il 23 luglio, venne conquistata Rostov, e da dove venne aperta la via all’invasione del Caucaso e alla conquista delle grandi risorse petrolifere per un congiungimento, nel cuore del Medio Oriente, con le truppe di Rommel operanti in Egitto. Questo piano, da cui Hitler, nell’agosto 1942, si riprometteva in gran parte la vittoriosa soluzione del conflitto, prese ad attuarsi con una rapida avanzata attraverso le steppe caucasiche.
Il resto delle armate di von Bock venne invece impegnato nella difficile avanzata verso Stalingrado, che fu attaccata dall’aria il 24 agosto e raggiunta in settembre dalla VI armata agli ordini di F. von Paulus. La città, importante per le industrie belliche, per la posizione dominante sul Volga e come indispensabile presupposto della difesa di Mosca (che di qui i Tedeschi intendevano ora aggirare), venne difesa palmo a palmo, trattenendo per due mesi e mezzo lo slancio offensivo dell’armata di von Paulus, sol cui fianco sinistro incombeva il pericolo di un contrattacco dall’estremità settentrionale dell’ansa del Don, a causa della mancata conquista di Voronez. Infine il 19 novembre, diretta dal maresciallo Zukov, partì, da nord e da sud di Stalingrado, la controffensiva sovietica e dopo pochi giorni le due branche della tenaglia si congiunsero alle spalle di von Paulus, il quale chiese invano a Hitler di abbandonare la città e spostarsi a sud-ovest.
In dicembre, poi, mentre von Manstein tentava disperatamente di ricongiungersi con l’armata di Stalingrado, da Voronez partì la seconda fase dell’offensiva sovietica che, estendendosi lungo tutto l’arco del Don, annientò il corpo di spedizione italiano venendo poi a gravitare alle spalle della stessa armata di von Manstein. A Stalingrado, gli uomini di von Paulus resistettero oltre ogni limite fino al 2 febbraio 1943, quando il loro capo; ormai convinto dell’assoluta vanità di prolungare il sacrificio, venendo meno agli ordini di Berlino, chiese la resa: dei 330.000 soldati solo 91.000 furono i superstiti.

Il capovolgimento della situazione in Africa. Nel corso del 1941 si fece sempre più difficile, in Africa orientale la situazione degli Italiani attaccati a nord in Eritrea e a sud in Somalia dalla controffensiva inglese, alla quale, dopo aver opposto lunga e tenace resistenza, dovettero infine cedere (caduta di Addis Abeba, 6 aprile; di Gondar, 27 novembre). In Africa settentrionale l’VIII armata britannica, dopo aver evacuato la Cirenaica, reagì all’impeto di Rommel, dapprima fermandone l’avanzata, poi, in novembre, tornando con notevole spiegamento di forze fino ad Agedabia nel Golfo Sirtico, da dove venne però ricacciata in seguito all’ultimo grande contrattacco italo-tedesco, iniziato il 22 gennaio 1942, interrotto da fasi di sistemazione e ripreso il 26 maggio Con la conquista di Tobruk (21 gennaio) le truppe dell’Asse fecero molti prigionieri e gran bottino, tra cui ben 10.000 m3 di benzina. Seguì, nell’ultima decade di giugno, la travolgente avanzata in Egitto a El Alamein, dove, contro le aspettative di Mussolini, pronto al trionfale ingresso in Alessandria, la resistenza britannica s’irrigidì.
I contemporanei successi degli USA nel mar dei Coralli e a Midway, oltre a render sempre più irrealizzabile il sogno delle potenze del Tripartito di incontrarsi a metà strada, permisero agli Inglesi di impiegare sul fronte egiziano le truppe già destinate alla difesa dell’India dai Giapponesi, e il generale B. L. Montgomery, profittando della ristrettezza del fronte di guerra, delimitato tra la costa e la depressione desertica, riuscì a costituire una poderosa linea difensiva, protetta da campi minati, che impedivano l’azione di rottura dei carri armati tedeschi. Seguì, quindi, a El Alamein, il contrattacco, simulato a S e sferrato a N la sera del 23 ottobre 1942, mentre la RAF si assicurava il predominio del cielo, cosicché ai primi di novembre cominciò la ritirata tedesca, coperta dalle divisioni italiane. A rendere irreversibile la marcia vittoriosa di Montgomery sopraggiunse il successo dell’operazione Torch, vale a dire lo sbarco degli angloamericani sulle coste occidentali dell’Africa settentrionale (8 novembre) a Casablanca, Orano e Algeri.

La sfida nell’Atlantico. Tale complessa operazione, comandata dal generale D. Eisenhower, fu il risultato della decisione anglo-americana di dar la priorità alla guerra contro la Germania, rispetto a quella contro il Giappone, concentrando i massimi sforzi nell’Atlantico, in quanto fu preceduta e resa possibile dalla lunga serie di perfezionamenti nella lotta contro i sottomarini tedeschi, che infestavano tale oceano, e le mine che vi erano disseminate. Le perdite navali anglo-americane, sempre notevoli, raggiunsero peraltro la punta massima proprio nel novembre 1942, in cui avvennero gli sbarchi sulle coste africane, con l’affondamento di ben 177 navi per oltre 700.000 tonnellate e ancora per tutto l’autunno e l’inverno 1942-1943 continuarono a esser preoccupanti. Per debellare la potenza aggressiva degli U. Boote, si procedette ad attacchi aerei contro le industrie costruttrici, all’impiego degli idrofoni e di velivoli muniti di radar, atti a individuarli, di proiettori per illuminarli di notte, e al lancio di speciali bombe di profondità, capaci di affondarli.
Anche i Tedeschi conseguirono importanti miglioramenti tecnici, specialmente con la realizzazione del Metox e poi dell’Hagenuck, procedimenti per captare le emissioni radar, a loro volta contrastati dall’invenzione statunitense di speciali apparecchi che impedivano di percepire le emissioni. Nel complesso, il progressivo sopravvento degli alleati non riuscì, fino all’ultima fase del conflitto, a stroncare la potenza dei mezzi subacquei tedeschi, la cui produzione anzi continuò a crescere e raggiunse il culmine nel 1941 con il varo di 387 sommergibili. In queste condizioni, l’apertura del secondo fronte, voluta dagli USA e pressantemente richiesta dall’URSS rappresentò un determinante elemento di sblocco, che pose le forze dell’Asse sulla difensiva. Gli Inglesi avrebbero preferito rinviarla, in attesa di consolidare il dominio aereo e navale degli alleati; gli USA pensavano di compierla addirittura in Europa, dimodoché la scelta dell’Africa come luogo degli sbarchi rappresentò una soluzione di compromesso tra i due punti di vista.

Dal crollo dell’Asse in Africa allo sbarco in Sicilia. Per reagire agli sbarchi in Algeria e Marocco, le truppe italo-tedesche, oltre a occupare il territorio metropolitano della Francia di Vichy, stabilirono una testa di ponte in Tunisia, alla cui difesa ridussero tutte le truppe presenti in Africa, dopo aver contrastato per tre mesi l’avanzata dell’VIII armata britannica sul territorio libico.
Il settore occidentale del fronte tunisino fu assegnato alla V armata tedesca di von Arnim, mentre la I armata italiana, comandata dal generale G. Messe, si schierò tra le alture di Maturata e il villaggio di Marteh. Strette tra la pressione delle truppe degli USA avanzanti dall’Algeria mentre a sud si spiegava l’attacco di Montgomery, le truppe dell’Asse, alla fine di marzo, ripiegarono dalla linea del Marteh a quella Akarit-Chotts. La situazione, sotto l’urto congiunto dell’VIII armata britannica e delle forze di Eisenhower e data l’assoluta inferiorità aerea, si fece sempre più critica, fino a precipitare nel settore della V armata tedesca, che si arrese l’11 maggio. Gli Italiani, dopo aver protratta per altri due giorni la resistenza nella Tunisia settentrionale, dovettero anch’essi capitolare, abbandonando completamente la guerra in Africa. Contemporaneamente a Washington i dirigenti alleati approntarono il piano per lo sbarco in Sicilia, già deciso nella conferenza tenuta in gennaio a Casablanca.
L’operazione, preceduta dalla conquista di Pantelleria e Lampedusa (11-12 giugno), ebbe luogo nella notte tra il 9 e il 10 luglio 1943, nella parte sud-orientale dell’isola lungo un tratto di costa di circa 150 km senza incontrare grande resistenza: consolidati gli approdi, ben presto gli alleati superarono la fascia costiera, affacciandosi alla piana di Catania. A pochi giorni di distanza l’una dall’altra, caddero le principali città siciliane, finché il 16 agosto venne raggiunto lo stretto di Messina e il 2 settembre reparti statunitensi e canadesi furono sbarcati in Calabria.
Nell’aprire il fronte italiano, gli Anglo-Americani non presunsero di arrecare il colpo decisivo alla Germania, loro principale nemica, che, attaccata da sud avrebbe costituito un’espugnabile difesa sulle Alpi, se non addirittura sull’Appennino tosto-emiliano, ma intesero compiere un’importante diversione, capace di assorbire una parte cospicua del suo sforzo difensivo, in vista di un attacco risolutivo che l’avrebbe poi più efficacemente piegata, e intanto di sbloccare il Mediterraneo. Ma il risultato più immediato e rilevante dello sbarco in Sicilia fu di approfondire la crisi politica e militare del regime fascista, favorendo il colpo di stato del  25 luglio, premessa all’armistizio dell’8 settembre.

Dall’armistizio di Cassibile allo liberazione di Roma. Da parte tedesca, fin dal 27 luglio, in una conferenza tra Hitler e i suoi collaboratori, si gettarono le basi del diretto intervento in Italia (operazione Alarico) onde liberare Mussolini, restaurare il fascismo, disarmare l’esercito e impadronirsi della flotta. A tale scopo scesero nella penisola numerose divisioni, in appoggio a quelle che già vi erano stanziate fino a formare le due armate di Rommel (collocata a nord) e di Kesselring (a sud), mentre le truppe italiane dislocate oltre i confini venivano trattenute come in pegno. L’attuazione del piano, rinviata finché l’Italia continuò a battersi contro gli Anglo-Americani, si svolse fulminea all’annuncio dell’armistizio (8 settembre 1943), concluso a Cassibile (3 settembre) dal generale G. Castellano con il generale W. Bedell Smith. Occupata gran parte della penisola e liberato Mussolini, si ebbe l’effimera restaurazione del regime fascista, succube ormai completamente di quello nazista, nella forma della Repubblica sociale (23 settembre), i cui principali uffici ebbero sede a Salò (Brescia). Il re e i componenti del Governo Badoglio fuggirono a Brindisi, presso gli alleati, mentre la flotta salpava per Malta.
I Tedeschi sgombrarono la Sardegna (20 settembre) e la Corsica (6 ottobre), impadronendosi, invece, del Dodecanneso. Gli alleati, pur dopo il mutato atteggiamento del governo regio e la favorevole disposizione mostrata dalla maggioranza degli Italiani nei loro confronti, continuarono ad attribuire alle operazioni in Italia un’importanza secondaria, e perciò, proprio mentre vi affluivano le forze tedesche, essi ne distraevano parte delle loro, in vista dell’apertura di un nuovo fronte in Francia.
L’VIII armata seguitò tuttavia l’avanzata lungo il litorale tirrenico, mentre, alle spalle dei Tedeschi, fu effettuato un difficile sbarco tra la foce del Sele e Salerno. Il 18 settembre i Tedeschi si ritirarono definitivamente a nord di questa città e alla fine del mese, costretti dall’insurrezione popolare, abbandonavano Napoli, dove il 1° ottobre entrarono gli alleati. Frattanto forze inglesi, sbarcate a Taranto, avevano esteso le operazioni alla parte sud-orientale d’Italia, dove, a metà ottobre, raggiungevano Foggia, avanzando quindi in Abruzzo fino al Sangro; ma lungo il corso di questo fiume i Tedeschi apprestarono la potente linea Gustav, che, attraverso successive fortificazioni, si prolungava per il corso del Garigliano fino al Tirreno ed ebbe Cassino come elemento fondamentale. Lungo tale linea, raggiunta a ovest dopo una faticosa e lenta avanzata, il fronte si fermò per tutto l’inverno e parte della primavera, nonostante lo sbarco ad Anzio (22 gennaio 1944) e i violenti bombardamenti su Cassino, con la distruzione della soprastante abbazia nel febbraio. In maggio, con un imponente concentramento di forze gli alleati sfondarono l’ala destra dello schieramento tedesco, che ripiegò sul massiccio dei monti Ausoni, tra la Piana di Fondi, Terracina e la valle del Sacco. Fu allora lanciato un triplice attacco, di fronte, dalla linea Terracina-Cassino, alle spalle, dalla testa di sbarco di Anzio, e dall’ala sinistra dell’VIII armata britannica lungo la valle del Liri e del Sacco.


I Tedeschi ripiegarono sui Colli Albani, ma ormai Kesselring non intendeva più contendere palmo a palmo il terreno del Lazio, bensì pervenire, con un’abile ritirata, all’Appennino tosco-emiliano, lungo il quale si snodava, ricca di difese naturali, la linea gotica. Avvenne quindi, la liberazione di Roma (4 giugno) e, in agosto, quella più travagliata di Firenze. Nella sua capitale ricuperata, l’Italia regia, cobelligerante degli alleati dal 13 ottobre 1943, ebbe una provvisoria sistemazione politica, fondata sul compromesso con le forze popolari antifasciste: a Vittorio Emanuele III subentrò il principe Umberto, insediandosi al Quirinale quale luogotenente generale del Regno, mentre al governo Badoglio succedette quello di I. Bonomi, già Capo del Comitato di Liberazione Nazionale, eletto dai rappresentanti dei partiti. Solo modesti reparti regolari italiani furono ammessi dagli alleati a battersi al loro fianco, inquadrati sul fronte della V armata, ma grande e coraggioso, in compenso, fu lo sviluppo della lotta partigiana nelle regioni ancora soggette ai Tedeschi e da parte delle truppe che si trovavano fuori dei confini.

L’operazione Overlord. Due giorni dopo la liberazione di Roma si ebbe, con lo sbarco anglo-americano in Normandia, l’evento decisivo della guerra, la cui accurata preparazione era da tempo al centro della strategia alleata; avversata da Churchill, il quale, in considerazione dei futuri rapporti con l’URSS, preferiva una azione nei Balcani, capace di fissare più a est la linea divisoria delle zone d’influenza in Europa, la decisione di aprire il secondo fronte sulla costa settentrionale francese prese sempre maggior consistenza nelle conferenze di Washington (detta Trident, 12-27 maggio 1943), di Quebec (17-24 agosto 1943), di Mosca (19-30 ottobre 1943), di Teheran (28 novembre - 1 dicembre 1943), grazie soprattutto all’accordo tra Stalin e Roosevelt, facilitato dalla prospettiva dell’attacco russo alle spalle del Giappone, una volta vinta, con efficace e concorde azione, la Germania. Si cominciò, dunque, a concentrare in Inghilterra un forte corpo di spedizione, al cui supremo comando fu posto il generale D. Eisenhower.
Il piano, chiamato Operazione Overlord, si precisò con la paradossale scelta della Normandia come luogo degli sbarchi, in modo da agire di sorpresa verso i capi tedeschi, i quali, non attendendosi l’attacco in quella regione, priva di porti e distante dall’Inghilterra, concentravano l’apparato difensivo nella zona di Calais. Per supplire alla mancanza di buoni porti nella regione, si realizzarono perfino porti artificiali prefabbricati (i Mulberry) e infine, vera arma segreta nella sua relativa semplicità tecnica, s’idearono e si posero in opera i carri armati anfibi. Per l’operazione Overlord si raccolsero tre milioni di uomini, 4000 navi, 11.000 aerei; insomma una grande molla di uomini e di mezzi, come disse Eisenhower, si trovava compressa in attesa del momento di saltare il canale della Manica.
Il momento venne il 5 giugno: gli attaccanti salparono all’alba, incuranti del maltempo, che del resto permise ai convogli dì celarsi sotto le nubi; tutta la Francia del nord fu sottoposta a martellamento aereo e vennero effettuati lanci di paracadutisti nelle retrovie della zona di sbarco, in vista della quale la flotta giunse all’alba del 6 giugno. Superati gli sbarramenti subacquei, gli alleati presero terra: gli Inglesi, comandati da Montgomery, nel settore est, gli Statunitensi, comandati da Bradley nel settore ovest. Nel campo tedesco si prevedeva da tempo, l’invasione, ma in altra zona, e lo sbarco in Normandia, perfino dopo che era avvenuto, fu valutato come una diversione precedente il vero e più forte attacco. A parte il notevole effetto di tale sorpresa, sorse nei difensori un contrasto dì vedute tra il feldmaresciallo K. Rundstedt, comandante in capo delle forze tedesche in Francia, e Rommel, inviato da Hitler a ispezionare le difese costiere: mentre il primo intendeva disporre i blindati nelle retrovie e manovrare dall’interno in vista del contrattacco, Rommel, d’accordo con il Führer, sosteneva la difesa rigida lungo il litorale. I Tedeschi, nei primi dieci giorni di guerra sul suolo francese, mantennero la superiorità numerica, ma fin dal primo urto si delineò il cedimento del Vallo Atlantico e l’inferiorità della loro aviazione, che, pur riprendendo con violenza i bombardamenti sull’Inghilterra e attuando il lancio delle bombe volanti V1 e V2, non poté contrastare gli attaccanti sul cielo della Normandia. Intanto il crescente afflusso di uomini e mezzi spostò decisamente il rapporto di forze a favore degli alleati, che, prima nel settore ovest, tenuto dagli Americani, e più tardi nella zona di Caen, dove erano impegnati gli Inglesi, ottennero decisivi successi (conquista di Cherbourg, 26 giugno; di Caen, 9 luglio; rottura a Saint-Lô-Coutances-Avranches nell’ultima settimana di luglio).
I sabotaggi dei partigiani aggravavano dall’interno la situazione dei Tedeschi, nei cui circoli militari, ormai in preda alla sfiducia e al malcontento per le intromissioni di Hitler nella condotta bellica, maturò la vasta congiura del 20 luglio con il fallito attentato al Führer. Sostituito Rundstedt ed eliminato Rommel, l’esercito germanico, tra l’8 e il 9 agosto, tentò disperatamente il contrattacco, che gli alleati infransero, dilagando nella penisola bretone mentre altre forze sbarcavano in Provenza (15 agosto). Il 18 insorse Parigi, dove una settimana dopo entrò l’esercito liberatore. La guerra si spostò quindi nel Belgio, dove si dimostrò la capacità di ripresa tedesca con l’offensiva delle Ardenne, lanciata il 16 dicembre 1944, in concomitanza con gli estremi tentativi diplomatici per la pace separata con gli Anglo-Americani, da cui Hitler sperava l’integrità della Germania e la conservazione del suo regime.
L’offensiva diede sorprendenti risultati, sfondando in profondità lo schieramento statunitense; la diresse Rundstedt, ristabilito al comando del fronte occidentale e vi parteciparono in gran numero i giovanissimi, chiamati alle armi in un clima di totale mobilitazione; superato il disorientamento prodotto dall’inatteso smacco, gli alleati, nel gennaio 1945, sferrarono la controffensiva, coordinata con quella contemporanea dei Sovietici, e il 7 marzo le truppe statunitensi della I armata costituirono la prima testa di ponte oltre il Reno a Remagen. Passato quindi il fiume in altri punti, l’avanzata anglo-americana costrinse alla capitolazione le truppe del bacino della Ruhr e proseguì nel cuore della Germania.

L’Armata Rossa da Stalingrado a Berlino. Dopo la vittoria di Stalingrado, le armate del generale N. Vatutin, con una serie di operazioni offensive, si portarono dal medio Don fino al Donez, e più a nord quelle di Golikov, rompendo il fronte della seconda armata ungherese, avanzarono verso Kharkov, che venne liberata il 16 febbraio 1943; nella seconda metà di febbraio però un precoce disgelo, ostacolando i rifornimenti, diminuiva l’impeto degli attaccanti, e le truppe di Manstein poterono rioccupare Kharkov e riguadagnare la linea del Donez, senza tuttavia riuscire a varcare il fiume.
In marzo i Tedeschi abbandonarono le posizioni avanzate di fronte a Mosca e poi per tutta la primavera il fango obbligò i contendenti a sospender le operazioni su gran parte del fronte; solo nella regione caucasica s’esercitò senza soste la pressione dei Sovietici contro la minacciosa testa di ponte restata ai Tedeschi sul Kuban, e a nord si svolsero combattimenti tra i laghi Ladoga e Ilmen. Per prevenire l’attacco preparato frattanto dai Sovietici, il 5 luglio, i Tedeschi sferrarono la loro terza offensiva d’estate, nel settore di Kursk, che essi intendevano avvolgere a tenaglia da Orel e da Belgorod, ma la manovra s’impigliò nei profondi campi minati dei Sovietici, i quali, in capo a una settimana, reagirono con una poderosa controffensiva. Il successo di questa poggiò sulla netta superiorità numerica, raggiunta attraverso anni di crescente mobilitazione del popolo sovietico, e sui grandi miglioramenti tecnici e qualitativi conseguiti in ogni arma, sia con l’impegno dell’industria di guerra sovietica che con gli aiuti statunitensi. In agosto i nazisti persero Orel e Kharkov, le due città da cui era partita la loro offensiva, e Taganrog sul Mare d’Azov.
In settembre l’avanzata sovietica liberò Briansk, Poltava e Smolensk sul Dnepr; in ottobre venne finalmente eliminata la testa di ponte sul Kuban, fu attraversato lo stretto di Kerc e raggiunto il basso Dnepr a Zaporozje e Dnepropotrovsk. Quindi, con un’offensiva a freccia i Sovietici ripresero Kiev, la capitale dell’Ucraina (6 novembre), ma, avendo abbandonato in questa azione il loro solito criterio di prudenza nelle avanzate, diedero ai Tedeschi l’opportunità di attuare una controffensiva, nella regione di Zitomir, tra il 16 novembre e il 23 dicembre, i cui limiti erano però segnati dalla superiorità acquistata dall’Armata Rossa, che, fermata sulla destra dello schieramento tedesco, premeva al centro e sulla sinistra, e infine il 25 dicembre sferrava la sua terza offensiva invernale. L’ultimo giorno dell’anno le truppe di Vatutin tolsero ai Tedeschi Zitomir, il centro da cui era partito il loro tentativo di controffensiva, mentre a nord nel gennaio 1944 si svolse la battaglia per la liberazione di Leningrado, conclusasi il giorno 27.
In marzo i Sovietici riconquistarono Brody nella zona di Leopoli, e in aprile l’avanzata sul mar Nero investì Odessa; a sud-est, nella penisola di Crimea la resistenza tedesca continuò ancora, esaurendosi nella prima metà di maggio. A questo punto aveva anche fine la grande offensiva invernale sovietica, alla quale già subentravano i preparativi per la nuova offensiva d’estate, che fu sferrata non a sud, come prevedeva Hitler, ma nella Russia Bianca: sfondata la linea tedesca a Vitebsk, le truppe sovietiche liberarono Minsk (5 luglio), Vilna (13 luglio), Leopoli (27 luglio), e poi, irrompendo in Polonia, giunsero, in agosto, davanti a Varsavia, la cui popolazione fin dall’inizio del mese insorse contro i Tedeschi.
Ma a questo punto, invece di intensificare le operazioni per liberare l’eroica capitale polacca, la strategia sovietica preferì adeguare ai successi del centro la situazione delle ali, le quali combattevano molto più a est, ancora in territorio sovietico. Anch’esse riportarono grandi successi, spostando, all’inizio di novembre, la destra del fronte fino al confine della Prussia orientale e in dicembre la sinistra in pieno territorio ungherese; ma intanto gli insorti di Varsavia esano stati schiacciati dopo sessantatre giorni di resistenza; sia la loro azione, preparata dal governo polacco in esilio a Londra e non annunciata preventivamente a Mosca, che il mancato aiuto sovietico, furono, a parte le ragioni strategiche, la conseguenza e la dimostrazione dell’incomprensione politica e della reciproca diffidenza tra i Polacchi non comunisti e l’URSS, tra i quali si interponeva il vicino ricordo del patto russo-tedesco, aggravato dall’ombra delle fosse di Katyn, denunciate dai Tedeschi.
La avanzata sovietica pose ad altri paesi dell’Europa orientale, Romania, Bulgaria e Finlandia, il problema dei rapporti con il grande Stato confinante, problema che essi avevano risolto in antecedenza in senso antagonistico, venendo a gravitare nell’orbita della Germania nazista e seguendola nel conflitto. Ora però che si delineava la sconfitta dell’alleato, in settembre, i tre paesi conclusero l’armistizio con l’URSS, che fu seguito poi dalla dichiarazione di guerra alla Germania. Tuttavia non fu soltanto la situazione militare a determinare tale mutamento, bensì, come in Italia, la dinamica dell’interna opposizione al fascismo che alimentava le speranze popolari di un ampio rinnovamento politico e sociale. Venne quindi la volta dell’Ungheria, alla cui vasta pianura le truppe sovietiche si affacciarono, penetrando dalla Transilvania: il reggente Horthy, che in ottobre aveva chiesto l’armistizio fu imprigionato dai Tedeschi, ma l’avanzata sovietica continuò, determinando la formazione del governo di Bela Miklos, che sottoscrisse l’armistizio il 21 gennaio 1945 e successivamente dichiarò guerra alla Germania. Frattanto il 12 era stata sferrata sulla Vistola l’ultima grande offensiva sovietica d’inverno, con la formidabile partecipazione di oltre cento divisioni di fanteria, sostenute da diciotto corpi blindati, mentre l’aviazione sovietica si rese padrona dei cieli.
Il generale H. Guderian, capo dello Stato Maggiore tedesco dispose e realizzò una strenua resistenza sulla linea Odor-Neisse, ma in febbraio i tre grandi, Churchill, Roosevelt e Stalin, alla conferenza di Yalta stabilirono un insieme di attacchi combinati e alternati in vista della vittoria totale: il 22, dieci giorni dopo la chiusura della conferenza, l’operazione aerea Clarion, cui parteciparono ben 10.000 velivoli anglo-americani, scardinò il sistema ferroviario tedesco, e al principio di marzo la strategia sovietica dispiegò un attacco massiccio verso il Baltico, che, sotto il comando di Zukov, portò alla conquista di Memel, Danzíca, Gdynia e Stettino.
Il 23 marzo cominciò la grande offensiva sovietica su Vienna, che si concluse il 13 aprile con l’occupazione della capitale austriaca; dodici giorni dopo la stessa Berlino era ormai completamente accerchiata e si iniziava l’attacco convergente su di essa. La disperata difesa tedesca obbligava i Sovietici a una lotta selvaggia strada per strada, fino nelle gallerie e nelle fogne, che durò fino al 2 maggio. Il 26 aprile, reparti sovietici e statunitensi s’incontrarono a Torgau sul fiume Elba e nella notte del 29 Hitler proclamò suo successore l’ammiraglio Doenitz, per poi, a quanto consta, darsi la morte.

Dalla stasi sulla linea gotica alla resa della Germania. Analogamente a quanto fecero i Sovietici in Polonia, così gli Anglo-Americani in Italia seguirono con fredda razionalità í loro piani di guerra, ritardando gli sforzi per una decisiva avanzata e subordinandoli alle esigenze di altri fronti.
Lo sbarco in Provenza (operazione Anvil) determinò, infatti, lo spostamento di sette divisioni di fanteria dal fronte italiano, dove tuttavia il maresciallo Alexander, dopo aver raggiunto la linea gotica, che era stata costruita dai Tedeschi tra i contrafforti apuani, il valico della Futa e la zona di Rimini, tentò nel settembre 1944 di infrangerla per irrompere nella valle padana. Non essendovi riuscito, si dispose alla lunga stasi invernale e invitò le forze partigiane a smobilitare, in attesa del momento opportuno per riprender la lotta. Anche nel caso italiano, come si è visto per quello polacco, a parte la prudenza consigliata dalla strategia, v’era, nei rapporti tra í partigiani e gli eserciti liberatori, una diffidenza politica che impediva una piena collaborazione; per superarla, si profittò del periodo della stasi bellica, raggiungendo gli accordi del 7 e del 26 dicembre, con cui il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia ottenne una delega di poteri dal governo italiano riconosciuto dagli alleati.
È così che nella primavera 1945 le forze della Resistenza si misero in moto, precedendo e accompagnando l’offensiva alleata, che, iniziata il 5 aprile sul fronte dell’VIII armata britannica e il 9 su quello della V armata statunitense, pervenne il 17 alla rottura delle linee tedesche nei pressi di Argenta (Ferrara): il 21 fu occupata Bologna e il 25 fu attraversato il Po a Casalmaggiore, mentre le regioni settentrionali insorgevano liberandosi da sole. Mussolini, catturato dai partigiani insieme con i principali esponenti della Repubblica sociale mentre tentava di rifugiarsi in Svizzera venne fucilato, il 28 aprile, a Giulino di Messegra (Como). Il 2 maggio si ebbe, infine, la capitolazione delle forze tedesche in Italia, seguita, dopo due giorni, da quella della flotta e quindi dalla resa definitiva della Germania, avvenuta il 7 maggio e ratificata il 10.

La guerra nel Pacifico fino alla sconfitta del Giappone. Dopo gli insuccessi nel mar dei Coralli e a Midway, i Giapponesi, con lo sbarco a Guadalcanal (luglio 1942), ripresero i loro sforzi per tagliare le comunicazioni statunitensi con l’Australia e circondare la grande isola, ma gli USA fronteggiarono il pericolo dando loro battaglia nella stessa Guadalcanal, dove sbarcarono anch’essi in agosto, e nel resto dell’arcipelago delle Salomone. Ma, dopo molti mesi di lenti progressi, a questa logorante contesa gli USA sostituirono la più disinvolta strategia degli sbarchi a «salti di montone», consistente nell’impadronirsì di isole-chiavi in ciascuno dei più importanti arcipelaghi, impiantarvi basi aeree e quindi balzare su un’altra isola distante centinaia di miglia, avvicinando sempre più la guerra al Giappone e lasciando all’aviazione il compito di neutralizzare le sacche insulari e di privarle di rifornimenti attraverso un implacabile blocco in collaborazione con le forze di mare.
Il primo «salto» avvenne a Tarawa, atollo delle Gilbert, protetto da complesse fortificazioni (20 novembre 1943); poi, i marines, proseguendo in direzione nord-ovest, sbarcarono a Kwajalein nelle Marshall (31 gennaio 1944) e, 350 miglia più in là, a Eniwetok nello stesso gruppo. Il 15 giugno avvenne lo sbarco a Saipan nelle Marianne, che con aspri combattimenti in due mesi furono tutte occupate; quindi, rivoltesi a sud, le forze statunitensi, in settembre, sbarcarono nelle Caroline e nelle Palau, in vista del decisivo attacco alle Filippine, che avvenne il 20 ottobre con l’ingresso nel golfo di Leyte di una flotta di 600 unità, comandata dal generale Mac Arthur.
Contro la gravissima minaccia, i Giapponesi impegnarono a fondo la loro flotta, dimodoché nel golfo di Leyte, tra il 23 e il 25 ottobre 1944, si svolse la massima battaglia aeronavale del conflitto che si concluse con la completa vittoria statunitense. Nei mesi successivi, con il contributo degli indigeni, avvenne la riconquista delle Filippine, mentre la flotta con un nuovo balzo aggredì lo stesso territorio giapponese, sbarcando a Jwo Jima (19 febbraio 1945) e a Okinawa, nelle Riu Kiu (26 marzo), che furono prese dopo lunghi sforzi contro il disperato impeto dei Kamikaze. Frattanto gli Inglesi combattevano con successo in Birmania, riallacciando le comunicazioni con la Cina, dove i Giapponesi, posti in gravi difficoltà, si ritirarono a nord dello Yang-Tse-kiang. Infine, il Giappone, le cui città erano martellate da massacranti bombardamenti e i cui necessari rifornimenti dal mare cominciarono a mancare per la sistematica distruzione della flotta mercantile, ricevette un nuovo colpo dall’afflusso di truppe britanniche, rese disponibili per la fine della guerra in Europa, che fece gravare altresì alle sue spalle l’imminente attacco sovietico.
Fu quindi avanzata da parte di Tokyo la richiesta di una mediazione sovietica per una pace onorevole, ma gli alleati, riuniti a Potsdam, offrirono soltanto la possibilità della resa senza condizioni (26 luglio 1945). Avendola il Giappone rifiutata, gli USA per por fine rapidamente al duro e lungo conflitto mondiale, non volendo chiedere il sacrificio di altre vite al loro popolo e agli alleati, e forse anche per non condividere oltre i meriti della vittoria con l’URSS, che si accingeva a intervenire, e arginare l’estensione della sua potenza in Asia e sul Pacifico, decisero di usare l’arma atomica. Furono così sganciate, con terribili effetti, le due bombe su Hiroshima (6 agosto) e Nagasaki (9 agosto), che piegarono definitivamente la tenace resistenza nipponica. L’atto di resa fu firmato dai rappresentanti giapponesi il 2 settembre 1945 a bordo della corazzata Missouri, nella baia di Tokyo.